Erano gli anni Ottanta, intorno alla fine del decennio. O forse i primi anni Novanta. Vedevamo il telegiornale locale, l’ultima edizione della sera, con la tv che era in bianco e nero e ogni tanto sfrigolava come le uova in padella. Udimmo dei rumori in sequenza e, dato che si avvicinava capodanno, dissi a mio padre che si trattava di sicuro di petardi. L’urlo che seguì quei rumori, però, rivelò una verità diversa: avevano ammazzato un uomo, quello che abitava al piano di sotto. Gli spararono alle spalle mentre infilava la chiave nel portone, nel disperato tentativo di andarsi a rinchiudere in appartamento.

Fu esattamente sotto la mia stanza. E quella notte non dormì. Ma non per la sorpresa di un omicidio di mafia: in realtà sotto le coperte continuavo a chiedermi come mai il sangue non fosse del tutto liquido come immaginavo, perché quando avevo guardato da vicino il corpo riverso a terra – prima che qualcuno si accorgesse che nella confusione dei curiosi mi ero infilato pure io, decidendo quindi di tirarmi via – ero riuscito a osservare bene la chiazza che si allargava lentamente sotto il corpo, valutandone lo strano spessore che sembrava avanzare sull’asfalto. Riflettevo su quello, perché di morti ammazzati in zona ne avevo già sentito parlare tanto e la cosa non mi aveva sorpreso.

Sono cresciuto in una periferia siciliana, e alcuni dei ragazzi coi quali giocavo a pallone nelle piazze, coi quali scherzavo e litigavo, ora sono in carcere, qualcuno con più di un omicidio addosso. E altri sono morti. Certo, non vivevo in un covo di mafiosi, e la Sicilia non era e non è un contenitore di malavita, ma quegli anni, gli anni Ottanta e in buona parte i Novanta, furono una palestra durissima per chi si preparava ad entrare nell’adolescenza in una periferia del catanese. Finire dall’altra parte sarebbe stato facile. Feci le mie scelte.

Fu in quel periodo che caddero il 284 e il 285. O il 285 e il 286. Insomma, il numero sarebbe da collocarsi lì intorno. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: sono loro quei numeri. C’è un elenco presente on line, su progettolegalità.it, che racchiude le vittime italiane delle organizzazioni criminali come mafia o ‘ndrangheta: si tratta di donne e uomini caduti nella lotta ai malavitosi. L’elenco non contiene i morti appartenenti alle stesse organizzazioni: il tipo ucciso sotto casa mia, mentre vedevamo quel tg in bianco e nero, non è presente. Aveva deciso, lui, di stare dall’altra parte, e lo aveva deciso prima di quegli anni Ottanta e Novanta, visto che non poteva considerarsi più un adolescente.

Gli omicidi, in quell’elenco, partono dal 1905, quando ad essere ucciso fu Luciano Nicoletti, contadino, vittima di mafia, e arrivano all’11 luglio 2008, con l’imprenditore Raffaele Granata, freddato dalla camorra. Negli anni Ottanta si contano ben 112 nomi, e scendono solo di tre unità nel decennio successivo. Nel 2000, però, arrivano a 15, per poi spegnersi nel decennio che viviamo. Vi state chiedendo cosa significhi questo? Beh, potrebbero esserci diverse risposte, e di certo io non ho le competenze per darle. È evidente, però, che, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, qualcosa cambiò: la metà degli omicidi degli anni Novanta avvenne nei primi tre anni di quel decennio. Ci vollero sette anni poi per eguagliare quei numeri, e il trend andò via via abbassandosi.

Se la scia di sangue fosse cresciuta con la costanza della fine degli Ottanta e dei tre anni successivi, probabilmente avremmo contato anche duecento vittime. Ma qualcosa cambiò. I numeri parlano chiaro. Certo, la malavita organizzata è ancora in vita, vigorosa, ma insieme a lei è cresciuta la coscienza critica della gente comune. È cresciuta al punto da far discutere di sé, con le questioni ossimoriche della mafia dell’antimafia. Ma il punto non è questo. Quando la tv di casa mia era in bianco e nero e i tg erano pochi si sentiva parlare dei morti di mafia e la mafia era una possibilità, e lo era perché comunque non se ne parlava davvero. Non veniva affrontata.

L’uomo ucciso sotto casa e i ragazzi coi quali giocavo a pallone stavano in mezzo a quel silenzio, e fecero una scelta dettata anche dalle poche opportunità per saperne di più. Da quel 1992 cominciò a crescere la coscienza critica, sorsero le opinioni e le parole iniziarono a diffondersi con una forza maggiore. Sì, potrebbe apparire retorica facile, ma allora accadde qualcosa che – sebbene trovo sia davvero difficile capire e spiegare senza avere i giusti mezzi per comprendere davvero – fece scendere i numeri nell’elenco e offrì una possibilità.

Oggi, ogni 19 luglio, in memoria dell’attentato a Paolo Borsellino celebriamo la Giornata della Legalità, ed è importante. Le parole ogni 19 luglio diventano più forti e hanno la possibilità di attecchire meglio, soprattutto nei ragazzi. I ragazzi della stessa età degli amici coi quali tracciavo i pali della porta ai lati dei portoni delle chiese chiuse. È dentro di loro che sta il cambiamento, e se qualcosa ha funzionato, dopo il 1992, può succedere anche adesso. Può succedere ora che assistiamo alla diffusione di un nuovo fenomeno, pericoloso quanto l’assenza di coscienza critica sulla mafia: la diffusione dell’odio virtuale. Educare alla legalità significa anzitutto educare, offrire i mezzi per comprendere quello che è sbagliato.

In un giorno votato a questo, in memoria di chi per la legalità morì, la diffusione dei concetti di giustizia sociale è fondamentale. Perché se la mafia ha dovuto tirare indietro la mano è possibile anche che chi diffonde odio, in questi tempi cupi per il vivere civile, trovi un terreno sempre meno fertile, fino a marcire. D’altronde c’è sempre qualcosa di cui si parla meno di quanto si dovrebbe, qualcosa che si affronta male e che ci fa correre il rischio di trovarci davanti nuovi demoni annidati nelle coscienze dei più giovani. Educare alla legalità significa formare le coscienze critiche. E la memoria dei grandi è un’arma formidabile se affidata al buon senso. Perché non siano solo elenchi, non siano solo numeri. E non siano solo post.

Seba Ambra -ilmegafono.org