Sono passati oltre dieci mesi da quando, lo scorso febbraio, Patrick Zaki, giovane egiziano trasferitosi a Bologna, dove frequentava il master universitario GEMMA, durante una visita ai propri familiari in terra natia, fu arrestato con l’accusa di propaganda sovversiva. Dieci mesi di detenzione dura presso il carcere di Tora, dove, secondo i racconti dei suoi familiari, lo studente dormirebbe sul pavimento (essendo stato privato persino del materasso), con inevitabili dolori alla schiena. Zaki avrebbe anche raccontato alla propria avvocata, Huda Nasrallah, di essere malato e di avere qualche ferita che stenta a rimarginarsi. Condizioni precarie di salute, dunque, che preoccupano oltre modo la famiglia, anche in considerazione dell’emergenza sanitaria che sta attraversando tutto il pianeta.

“Siamo molto spaventati – ha dichiarato la sorella di Patrick, Marise – sembra che abbiano cercato di estorcergli informazioni con la tortura e che ora, visto il riflettore puntato sulle porte del carcere, abbiano trasformato le torture in piccoli atti per tormentarlo”. Oltre alla privazione del materasso, nonostante gli appelli dell’Universita di Bologna e di molti comitati studenteschi, a Patrick è stato infatti impedito di proseguire gli studi, non solo non consentendo iniziative di didattica on-line ma anche non permettendogli di consultare i testi universitari. Per finire, sono state davvero ridottissime le comunicazioni consentite tra il giovane e la propria famiglia. Patrick ha potuto vedere per la prima volta la madre solo a settembre e, inoltre, non avrebbe ricevuto nessuna delle innumerevoli lettere mandate a lui dai suoi amici, mentre solo due delle oltre venti scritte dai suoi familiari gli sarebbero state consegnate.

Privazioni fisiche, psicologiche ed emotive, condite da un’inaudita solitudine: in poche parole tortura. Tutto questo, è bene ricordarlo, sulla base di accuse che l’avvocata di Patrick definisce false e che non sono state nemmeno ben formalizzate perché, nonostante gli innumerevoli mesi di prigionia. Nelle sole tre udienze che si sono tenute, infatti, ci si è limitato a confermare la misura della detenzione preventiva che in Egitto è consentita sino a due anni. Secondo le accuse mossegli, Zaki avrebbe pubblicato dei post sovversivi tramite il proprio account Facebook. Ma, a detta del giovane e del suo avvocato, il profilo cui si riferiscono gli inquirenti egiziani non sarebbe il suo ma un profilo falso.

Il giovane, ha spiegato la sua legale, “non comprende le accuse mosse contro di lui, né perché si trova in carcere e quali sono le prove a suo carico”. Avrebbe inoltre chiesto al giudice, durante l’ultima udienza, di accertarsi se i documenti all’origine delle accuse sono realmente attribuibili a lui e, in caso contrario, di “scagionarlo”. Considerando le scarne e poco attendibili prove a sostegno delle accuse, sembrerebbe lecito pensare che Zaki sia detenuto per ragioni squisitamente ideologiche. Patrick, con ogni probabilità, sta pagando il suo essere da sempre un attivista in difesa dei diritti delle minoranze, Una ritorsione, dunque, qualcosa che, purtroppo, accade con una certa frequenza nella sua terra d’origine.

Inevitabile pensare alla sorte di Giulio Regeni ed alla incresciosa circostanza che, nonostante siano ormai trascorsi quasi 5 anni dal suo assassinio, si sia ben lontani dall’accertare la reale dinamica dei fatti che hanno condotto alla sua morte o dall’ottenere una qualche forma di collaborazione dalle autorità egiziane. Sarebbe forse ora che gli organismi internazionali, nonché lo Stato italiano, alzassero un po’ la voce in difesa della libertà, delle giustizia, della sicurezza.  Non è possibile continuare ad intrattenere rapporti con chi compie tali soprusi ai danni di giovani colpevoli solo di avere delle idee che risultano scomode ai tiranni di turno.

Anna Serrapelle- il megafono.org