“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…”. L’Articolo 1 della Costituzione italiana è il richiamo inascoltato nel Paese delle disuguaglianze, dove tutto ha un prezzo. Morire di lavoro, oggi come una volta. Quante storie hanno segnato il tempo del lavoro in questo Paese: il petrolchimico di Marghera e i suoi veleni, l’amianto di Casale Monferrato e Monfalcone e della Breda di Milano, i veleni dell’ILVA di Taranto che entrano in ogni casa. Infine, il punto d’arrivo più alto del dolore: il rogo degli operai della ThyssenKrupp di Torino. Eppure, quella notte maledetta sembra già dimenticata da questo Paese che rimuove tutto e troppo in fretta. Nel nuovo millennio si cammina accanto a oltre mille morti all’anno. Si muore per il lavoro, oggi come allora e, come sempre, si accetta il prezzo: in nome di che cosa? Cosa vale quel prezzo? Vale il silenzio sui profitti di chi costruisce le proprie fortune sui bilanci e sui fatturati, vale la complicità di chi baratta leggi sul lavoro in cambio di un tornaconto politico. Vale meno di una vita umana.

Il puzzle è costruito con mille pezzi che da soli non possono stare in piedi, hanno bisogno l’uno dell’altro: appalti e subappalti, cooperative che gestiscono lavoratori mandati allo sbaraglio, ma che non sono nella condizione di avere un addestramento e una preparazione adeguata. Le statistiche non mentono mai, i numeri sono precisi ma hanno un difetto d’origine: ci dicono quante vite sono state cancellate dal lavoro nel corso dei mesi e degli anni, ma non ci raccontano il perché, non ci spiegano il motivo e le cause di quelle vite cancellate, non ci portano dentro le case di chi ha perso una parte di sé.

Le statistiche, i numeri, la matematica: tutte cose razionali e che si spiegano con un teorema, con una formula o un algoritmo. Poi ci sono i sentimenti, i pensieri che si accavallano e che non rispondono a nessun algoritmo e a nessuna formula: sono irrazionali e per questo sono vivi e caldi di quel calore che nasce dalle viscere. Sono arrabbiati i sentimenti, perché tropo spesso nessuno li ascolta e li prende in considerazione, li rispetta. E quando un ragazzo di diciotto anni muore in fabbrica, in quello che doveva essere il suo ultimo giorno di lavoro di quell’assurdità che una legge dello stato ha chiamato “alternanza scuola-lavoro”, i sentimenti si incazzano con il mondo intero. Lorenzo aveva solo diciotto anni, la bellezza di un’età che non torna una seconda volta e dove la cosa più bella e più importante sono i sogni, gli innamoramenti per la vita e le scommesse sul futuro, anche le illusioni. I suoi diciotto anni sono finiti in un giorno di inverno, schiacciati da una putrella nello stabilimento della Burimec a Launzacco in provincia di Udine.

Tremenda e inaccettabile la dichiarazione di un ministro del Governo: “Il tirocinio dev’essere una esperienza di vita”. Con questa dichiarazione, Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione nel governo Draghi, perde la partita e la propria dignità. Eppure, in questa affermazione c’è tutta l’aridità di questa società, sbagliata e folle, a cui non interessa nulla dei sogni e della bellezza che brillano nel cuore quando si hanno diciotto anni. Il modello su cui questa società è plasmata guarda ad un solo obiettivo: il profitto. E in nome del profitto tutto è consentito. Antonio Gramsci scriveva “…Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo”. Il tempo passa, cambia le cose e le persone. Ai ragazzi di oggi non si chiede più l’intelligenza, men che meno l’entusiasmo. Si chiede l’adesione ad un modello di vita e nient’altro, perché l’intelligenza e l’entusiasmo sono pericolosi e possono mettere in discussione quel modello di vita.

La scuola non può e non deve essere un momento di crescita, non deve formare gli adulti consapevoli di domani, no, la scuola deve essere la fucina che sforna nuova manovalanza e nuova linfa per quel modello che chiede solo la passiva accettazione. La legge 107/2015 del governo presieduto da Matteo Renzi venne presentata come la legge della “Buona Scuola”. Strano e amaro accostare questa legge ad una “Buona Scuola”, nel Paese che aveva davvero conosciuto la “Buona Scuola” di Don Milani a Barbiana, in provincia di Firenze. Erano gli anni ‘50 e Don Milani creava dal nulla e nel nulla la scuola per i ragazzi più poveri, giovani operai e contadini. Quella legge 107 venne salutata da molti come la giusta e necessaria apertura al mondo del lavoro, capace di offrire agli studenti la possibilità di avere una formazione in aula e all’interno delle aziende e ha reso obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro. Qualcuno vedeva addirittura, in questo obbligo, il superamento di un concetto elitario della scuola, capace quindi di formare gli studenti che avrebbero acquisito gradualmente le competenze utili per un inserimento nel modo del lavoro.

Nella realtà è stata data a molte imprese la possibilità di avere manodopera gratuita, dove il livello di formazione è più che vicino allo zero. L’inchiesta della magistratura dovrà fare luce sulla morte di Lorenzo Parelli, si dice così in questi casi. Si dice così ogni volta che il lavoro si prende una vita per consegnarla alla morte in un Paese dove le morti sul lavoro sono una tragica contabilità quotidiana. Ma la luce non arriva quasi mai e, quando arriva, ha sempre contorni sfocati e indulgenti. Di lavoro si muore nelle fabbriche, piccole o grandi non fa differenza, si muore nei cantieri e nei campi dove una cassetta di pomodori vale un pugno di centesimi in più della vita di un essere umano. Il profitto, la cosa più rilevante di questa società incapace di fare un passo avanti, detta le regole. La ragnatela delle complicità è intricata, una matassa dove le regole del gioco sembrano immutabili nel tempo: la ricerca di una manodopera a basso costo, tutele e diritti che vengono messi in discussione e troppe volte cancellati. La sicurezza degli ambienti di lavoro è un costo che questa società non è disposta a pagare.

Si muore, ma poi l’Italia dimentica in fretta. Dimentica e si rifiuta di vedere il castello di sabbia su cui si appoggia il mondo del lavoro. Un Paese civile e responsabile dovrebbe fermarsi a riflettere sulle vite strappate dal lavoro e per il lavoro: come governo e come cittadini, come partiti, come sindacati e come organi di informazione, tutti dovremmo fermarci a riflettere. L’impressionante numero di morti sul lavoro ci racconta che questo non succede e quell’Articolo 1 della Costituzione, inascoltato e offeso, ci dice che chi tace su queste morti diventa complice. Quando si accetta la mancanza di sicurezza nelle fabbriche e nei cantieri, quando si gira lo sguardo davanti ai morti nei campi dove gli schiavi stagionali raccolgono i pomodori che entrano nelle nostre case, quando si pretende che negozi e supermercati siano aperti 24 ore su 24, sette giorni su sette, e che il ragazzo in bicicletta o in motorino ci consegni la pizza calda a domicilio, e chissenefrega di quanto guadagna e quante consegne deve fare in un giorno e in quali condizioni. Quando si accetta tutto questo abbiamo già perso la partita.

Sono tanti i pezzi che compongono un puzzle, basta che un pezzo sia nel posto sbagliato e il disegno perde ogni colore e contorno, perde valore. Quando il pezzo sbagliato è una vita non ancora sbocciata non c’è più tempo per un’altra partita, l’arbitro fischia la fine e tutto ricomincia come prima: appalti, subappalti, manodopera a basso costo. Tutto questo ha un volto antico, che in troppi hanno paura di chiamare con suo il vero nome: sfruttamento.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org