Periferia nord di Milano, la coda del quartiere Niguarda. Poche fermate di metropolitana, una manciata di minuti, per arrivare alle luci del centro di una città che promette sogni, ma è così lontana da sembrare quasi un miraggio. Difficile credere nei sogni quando la sera avvolge la coda della periferia. La coda si attorciglia attorno alla caserma “Annarumma”, le luci della città qui non arrivano. Le uniche luci sono quelle dei falò accesi per scaldare quell’umanità ai margini che aspetta il momento, il suo turno, per ottenere il lasciapassare per vivere. È inverno e, intorno ai falò accesi, usando rami secchi, caduti o strappati agli alberi di quello che vorrebbe essere solo un parco, c’è qualche tenda piccola e lacera che ha già conosciuto altri inverni. Non è un campeggio, assomiglia piuttosto a un recinto, un piccolo campo profughi: fango e polvere, nessuna struttura di supporto e un solo gabinetto chimico, transenne, cartoni su cui dormire e una coperta, rabbia, delusioni e speranze che parlano lingue diverse ma uguali, dal Maghreb all’America Latina, perché in questo campo la geografia è una sola e si chiama umanità.

La coda della periferia, qui in via Cagni, mette a nudo tutto quello che allontana la politica, e le sue leggi sull’immigrazione, dalla solidarietà fra i popoli. Davanti a quel recinto e a quelle transenne il valore di parole come solidarietà e accoglienza si perde, c’è solo l’assenza dello Stato, che sceglie una volta di più di affidare alla Questura e alle forze di polizia un compito che lo Stato non vuole svolgere. L’Ufficio immigrazione di via Cagni a Milano è diventato l’emblema di questa distanza fra lo Stato e la reale condizione di chi cerca un’integrazione sociale piena di ostacoli. Prima del dicembre 2022 le procedure erano articolate su un sistema di appuntamenti che permettevano un percorso più agevole, anche se non meno difficile. Poi tutto è cambiato senza una spiegazione.

Qui, in questa distaccata e improvvisata sede della Questura, quell’umanità ai margini aspetta di presentare la sua richiesta di asilo, sapendo che questo è solo il primo passo: dopo un notte di attesa, i più fortunati – non più di 120 persone a settimana – vengono suddivisi e smistati per l’avvio delle pratiche nell’arco di una settimana e, non prima di un tempo inferiore a 90 giorni, ricevono un primo documento che non rappresenta ancora un vero e proprio permesso di soggiorno, ma solamente la certezza di non essere espulsi. Il passo successivo, quindi un ulteriore appuntamento, è quello in cui si procede alla compilazione del “Modello C3”, con cui il richiedente asilo presenta ufficialmente la domanda di protezione internazionale. Solo alla fine di tutto questo processo burocratico arriva il permesso di soggiorno temporaneo, che deve essere rinnovato dopo sei mesi.

Quel bivacco attorno alla caserma “Annarumma” diventa allora un limbo che può durare all’infinito e che ogni domenica sera si rinnova e si autoalimenta, nella speranza di poter essere selezionati dopo aver percorso tutta la distanza per arrivare fin qui attraversando ogni rotta. Quanta forza serve per continuare ad aspettare, resistere al freddo e alla disperazione? Non sono chiari i criteri con cui le selezioni stesse vengono effettuate e nessuno ha mai sentito il dovere e l’obbligo morale di spiegarlo, né l’Ufficio immigrazione né i funzionari della questura che gestiscono le operazioni: chi resta fuori dalla chiamata resta fuori e basta, dietro le transenne e dietro il cordone di polizia e carabinieri che delimita il recinto. Nella mattinata di lunedì 6 marzo, la questura ha annunciato che gli accessi saranno raddoppiati, ma quella che poteva sembrare una notizia positiva si è trasformata in una beffa: il doppio degli accessi, certo, ma ogni due settimane.

Non sono mancati, nel corso delle settimane, i disordini e gli scontri con le forze dell’ordine: l’esasperazione esiste e ad essa si aggiungono la durezza e l’intransigenza di cui molti uomini delle forze dell’ordine non riescono a fare a meno nell’esercitare il loro mestiere, e laddove servirebbero interpreti e mediatori, laddove la presenza dello Stato e delle istituzioni dovrebbe portate la calma, arrivano invece le cariche. C’è chi ha seguito questa odissea fin dal primo giorno, portando quel senso di civiltà che va oltre la solidarietà umana e diventa qualcosa di ancora più concreto: un’attività di presenza e di monitoraggio costante, la volontà e la capacità di assicurare un’assistenza anche legale ai richiedenti asilo, il supporto psicologico e l’obiettivo di portare alla luce ogni prassi illegittima posta in essere dalla Questura. Un riconoscimento particolare spetta al NAGA, associazione di volontariato laica e indipendente che da anni opera sul territorio e che al centro della sua azione pone l’attenzione a migranti e cittadini stranieri, fornendo assistenza sanitaria, sociale e legale.

La presenza del NAGA e dei suoi volontari in via Cagni è stata un grande elemento di informazione su quanto succedeva e come succedeva in quell’angolo di periferia. L’informazione è l’elemento che è mancato per molto tempo intorno a quanto succedeva e succede in via Cagni. Qualche servizio di poche righe sui giornali e nei telegiornali, ma un pesante silenzio sulle ragioni dei richiedenti asilo e sulle condizioni in cui sono costretti nel recinto a loro dedicato. Silenzio sulle modalità di accesso ai locali della Questura e sul cordone poliziesco intorno a quell’umanità che scappa da Paesi da cui si può solo scappare. Un giorno alla volta questo muro di silenzio è crollato grazie alla presenza di associazioni come il NAGA. Accanto al NAGA i giovani dei Centri sociali di Milano, la rete NO-CPR, la Comunità di Sant’Egidio e altri.

La dimostrazione di questo piccolo ma significativo cambiamento si è palesato nella notte fra il 5 e il 6 marzo, pochi giorni fa: la presenza di telecamere, giornalisti e fotografi, interpreti, il Consiglio di Municipio 9 che decide di riunirsi pubblicamente in via Cagni. Piccoli segnali, certo, ma che indicavano alla Questura la percezione di essere in qualche modo sotto lo sguardo di una parte della città. Non sono mancati i momenti di tensione, ma la differenza con le settimane precedenti era palpabile. Tutto questo non cambia il quadro di una storia ancora lontana da una soluzione degna di un Paese civile. Resta la distanza con le istituzioni dello Stato che, per scelta politica o per incapacità, non sanno dare le risposte che questa umanità chiede con lo sguardo perso prima ancora che con la voce.

Resta l’impressione, o la certezza, che il diritto d’asilo sia ostacolato con ogni mezzo e con ogni strumento: quando si richiedono documentazioni impossibili da ottenere; quando si notificano e si attuano ordini di allontanamento di chi attende al freddo di poter esercitare una legittima richiesta di asilo; quando la Questura di Milano non garantisce l’accesso ai richiedenti asilo nel rispetto della dignità delle persone e la Pubblica Amministrazione non riesce ad essere parte attiva nella storia, ma delega alla Questura e alle forze di polizia ogni compito, risulta più che evidente il tentativo di scoraggiare le persone ad esercitare un diritto. Tutto questo è indegno di un Paese civile e rappresenta una vergogna per una città. Il diritto di asilo esiste, è accampato in un prato della periferia nord di Milano, in via Cagni. Una fila enorme di umanità ai margini, senza nessuna certezza di riuscire ad ottenere quel diritto. Torneremo ancora in quella coda di periferia che si attorciglia attorno alla caserma “Annarumma”, dove le luci della città non arrivano, è un atto dovuto e necessario.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org