“Ma io non voglio andare fra i matti, — osservò Alice. — Oh non ne puoi fare a meno, — disse il Gatto, — qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu sei matta. — Come sai che io sia matta? — domandò Alice. — Tu sei matta, — disse il Gatto, — altrimenti non saresti venuta qui”. È un passo di “Alice nel Paese delle meraviglie” di Lewis Carroll, oggi più attuale che mai. Ma la pazzia è una condizione oggettiva o è soltanto un punto di vista? Cos’è la normalità? Qualcosa che ci piace pensare esista o qualcosa che realmente esiste? Con la pandemia di Covid-19 l’incidenza dei sintomi depressivi è quintuplicata, mentre i finanziamenti dello Stato verso questo tipo di malattie e disturbi sono insufficienti e mal distribuiti. L’obiettivo di avere il 5% dei fondi stanziati per la salute mentale è molto lontano, dato che le Ausl mettono a disposizione circa il 3,2-3,3% del loro budget. Paesi come la Francia, la Germania e il Regno Unito raggiungono il 7,8 e l’8,5%.

I cambiamenti e le radicali mutazioni degli ultimi quarant’anni e le migrazioni di massa hanno aumentato, nella popolazione mondiale, i disagi mentali. Dagli anni ‘80 del secolo scorso, il mondo non è più lo stesso. La società ha ultimato cambiamenti radicali e due generazioni almeno sono rimaste intrappolate nell’interregno tra due ere: la Modernità e ciò che viene dopo. Le cose si trasformano, ciò che conoscevamo viene ritirato dal giro, le piste dei nostri genitori, come le lunghe autostrade del Sud, finiscono sull’erba; non un ingegnere, non un capomastro, non un saggio sull’altopiano dove siamo finiti; ove batte un vento globale che non muove le pale eoliche. Circondati da voci, echi e sussurri, la sensazione è di svanire nel caos. Perché non ci hanno avvertiti? Così vaghiamo “privi di categorie”, afferma l’etnopsichiatra Paolo Cianconi, in questo arcipelago di scorie (o detriti), con strumenti relazionali che funzionano ad intermittenza, mentre solo i dubbi sono costanti.

Il nostro mondo diventa un figlio che non riconosciamo, un amante sbucato dal passato, un colpo di vento che ha condotto le nubi ed eclissato il futuro. Le migrazioni, alimentate anche dalla globalizzazione, hanno contribuito a far crescere questo non sapere più chi siamo, da dove veniamo, dove andremo, che strada percorreremo, con chi. Ma è realmente il fenomeno della migrazione un problema, o come veniamo trattati prima, durante e dopo una migrazione? Chi sono i migranti? Perché si decide di lasciare il luogo in cui si è nati per spostarsi altrove? Vi sono migranti economici (il migrante economico è colui che si trasferisce in un Paese straniero, senza risorse, con lo scopo di vivere e lavorare nel Paese accogliente) e rifugiati. Gli Stati occidentali, le loro imprese e le loro multinazionali utilizzano la politica del ricavare profitti da tutto, anche dai cataclismi (“business as usual”). In genere, e non è un luogo comune, nei luoghi del mondo dove ci sono conflitti è perché ci sono risorse (Yemen e Congo, ad esempio).

Insieme ai migranti economici e ai rifugiati vi sono e vi saranno i rifugiati climatici; l’aumento delle temperature, la riduzione dei venti, l’acidificazione degli oceani, la proliferazione di insetti porteranno ad un aumento di questo tipo di migrazioni, dal 30% al 190% in poco più di 80 anni. L’inquinamento del nostro pianeta (Usa, Cina e India le nazioni che inquinano di più), la deforestazione (foresta amazzonica in Brasile), nuove forme di schiavitù, la possibilità di disporre delle risorse idriche in maniera non equa porteranno nel giro di qualche decennio, almeno dieci milioni di persone a migrare. A tutto questo scenario si aggiunge la natura dell’essere umano, in quanto essere esplorativo. Le migrazioni vengono approfonditamente studiate solo da una ventina di anni e le tensioni da esse generate si traducono in stress.

La prima domanda che ci si deve porre, presa coscienza dell’attuale situazione geopolitica, è: perché si migra? Vi sono diverse teorie. Quella più diffusa è legata al soddisfacimento dei bisogni primari (cibo, acqua, salvezza della propria vita). Si tratta di una teoria che ha un fondamento ma è parzialmente vera. Lo spostamento è nella testa dei sapiens; l’uomo, l’essere umano migra, anche, per “inquietudine”, per non omologarsi, per guardare “oltre il muro”, per cercare, disperatamente, scriveva Thomas Bernhard, quell’altrove “dove non sono, nel luogo dal quale sono or ora fuggito. Solo nel tragitto tra il luogo che ho appena lasciato e quello dove sto andando io sono felice”. Più si è diversi, più siamo diversi, più ci sarà la possibilità di salvarci. Quindi, ancora, perché si migra e quanti tipi di migranti conosciamo?

Una piccola sintesi può essere fatta: ci sono i migranti economici che fuggono per uscire dalla povertà, i migranti per guerre che scappano per sopravvivere, i migranti per persecuzioni sessuali, politiche, religiose, i rifugiati politici che richiedono asilo, i migranti climatici che vivono in contesti o territori inospitali e, infine, i distonici dagli Stati, cioè coloro che decidono di migrare perché non si identificano nel loro Stato. Da queste basi di partenza parte il progetto migratorio. La migrazione è composta da crisi e distonia psichica, poiché bisogna affrontare tre condizioni: quella pre-migratoria (con la sua realtà biologica, di personalità, culturale); quella migratoria (transizione e stress); quella post-migratoria (integrazione, differenze culturali, ricerca del lavoro). Se il progetto migratorio ha un buon esito ci saranno vantaggi, se il progetto fallisce gli svantaggi saranno tantissimi (perdita della casa, lutto culturale, episodi di razzismo, gestione della marginalità, shock culturale, sindromi alienative, dissonanze cognitive, interstizializzazione con condizioni di vita pessime e senza alcuna garanzia).

A questo punto ci si chiede: chi si prende cura di queste problematiche? Esistono operatori pronti e preparati ad affrontare questo tipo di disagi mentali? La società civile conosce la varietà umana presente nelle strutture riabilitative (che non sono i reparti di psichiatria degli ospedali)? È a conoscenza del numero e della varietà di vite presenti, spesso frutto di migrazioni fallite che hanno provocato disagi mentali, uso e abuso di farmaci, alcolismo e/o tossicodipendenza? È stata stilata una schematizzazione che permetta all’operatore di avere una mappa da utilizzare per il suo agire clinico? A queste domande non vi sono, ancora, risposte esaustive. Nonostante siano passati oltre quarant’anni dalla Legge Basaglia (Legge 180 del 1978) che ha portato alla chiusura dei manicomi, i fondi finanziati per la malattia mentale sono ancora insufficienti e il personale (psichiatri, infermieri, educatori, operatori socio sanitari) lavora, spesso, in solitudine e in condizioni di forte stress.

Una delle domande ricorrenti è: dalla malattia mentale si può guarire? Sì, è assolutamente possibile guarire da un disturbo mentale. A tal proposito, sarebbe opportuno parlare di storie di guarigione, utilizzando i dati scientifici derivanti da ricerche sui miglioramenti nelle cure. Cure che non sono solo farmaci ma trattamenti riabilitativi che, grazie al lavoro di educatori e tecnici della riabilitazione psichiatrica, permettono la guarigione, autonomia di vita e relazioni sociali. “La società per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”, scriveva Basaglia nel 1979. Dalla follia dei manicomi alla follia dello stigma e del pregiudizio, il cammino è, però, ancora lungo e articolato. Vittime dello stigma i pazienti e, di riflesso, gli operatori che lavorano con queste vite complesse, cariche di sofferenza e di umanità, di sogni, desideri e domande a cui, spesso, non sai dare una risposta esaustiva ed efficace.

Puoi trovarti di fronte ad un tipo vestito da alpino, in pieno agosto, con quaranta gradi all’ombra, convinto di essere in missione con il Dalai Lama sull’Himalaya o ad una donna affetta da schizofrenia, che si sente Jennifer Beals in Flashdance e che sogna un palcoscenico e tante luci tutte per lei. Oppure, puoi ritrovarti ad aiutare un giovane uomo, affetto da psicosi ossessivo compulsiva che, mentre si allaccia e slaccia le scarpe un numero indefinito di volte, in attesa di scendere in campo per giocare a basket, ti guarda con due occhi di un’umanità disarmante e ti chiede: “Vincenzo, secondo te, perché sono diventato pazzo?”. Non si aspettava una risposta e attraverso il mio imbarazzato silenzio ha continuato a sentire altre voci, altri suoni, spero musiche parallele e alternative.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org