Il 31 marzo non è mai un giorno qualsiasi per l’antimafia pugliese. Il 31 marzo è il giorno del ricordo e della memoria di due vittime di mafia, due pugliesi che hanno pagato con la propria vita per difendere i propri ideali di giustizia: Renata Fonte e Francesco Marcone. La prima venne uccisa nel 1984, di notte, mentre rientrava a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Marcone, invece venne assassinato nel 1995, nel portone di casa, davanti agli occhi della figlia Daniela, oggi vicepresidente dell’associazione Libera. Due figure accomunate da senso del dovere e della giustizia e purtroppo dallo stesso destino. Le vicende di Renata e Francesco hanno rischiato di finire nell’oblìo, vuoi per indifferenza e omertà, vuoi per una minore attenzione da parte dell’opinione pubblica nazionale, probabilmente perché per troppo tempo si è dato poco peso alla criminalità pugliese.

Per far conoscere agli italiani la storia di Renata Fonte ci sono voluti molti anni e libri, canzoni, film e anche una fiction Rai (Una donna contro tutti). Renata Fonte era una consigliera comunale di Nardò (LE) che difese una delle più belle aree naturali della Puglia, Porto Selvaggio, da progetti speculativi e illeciti, che coinvolgevano criminalità e politica. Grazie alla sua lotta divenne realtà l’istituzione del parco naturale di Porto Selvaggio. Una battaglia coraggiosa per difendere la bellezza della propria terra. Una battaglia che le costò la vita.

La storia di Marcone, direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, invece, è ancora poco conosciuta ai più. A testimoniarlo, è stata proprio Daniela Marcone che, nel corso di un’intervista rilasciata a “BonCulture.it” e riproposta da Libera, ha raccontato questi lunghi 25 anni di sofferenza, concentrandosi poi soprattutto sui primi mesi successivi alla morte del padre. “Il mio peggior nemico è stato il tempo. Dalla morte di mio padre – ha affermato – ho vissuto otto mesi di silenzio lunghissimi. Non ci voleva ascoltare nessuno. Oggi ci sono domande che mi distruggono. Perché dovettero passare otto mesi prima di ascoltare i familiari della vittima? Perché all’epoca non sono mai stata ricevuta dal Prefetto, dal Questore, dal Procuratore? Perché non si è mossa una macchina importante per l’omicidio di un uomo dello Stato?”.

La situazione, poi, non è affatto migliorata nel corso degli anni: sebbene il Tribunale di Foggia sia riuscito, nel tempo, a risalire all’omicida (l’uomo è morto poco prima del processo, mandando così all’aria ogni ulteriore inchiesta), lo stesso Tribunale non ha mai avuto la capacità di portare a termine un’indagine tanto importante, archiviandola per ben tre volte e lasciando che si concludesse in un nulla di fatto. La rabbia di Daniela è, quindi, comprensibile: come può lo Stato dimenticarsi di uno dei suo uomini? Marcone, per l’appunto, da direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia si era accorto di movimenti sospetti.

Il lavoro di Marcone, nello specifico, consisteva nel controllare atti di una certa importanza quali le compravendite immobiliari, terreni o le costituzioni di società edilizie. Un ruolo con responsabilità notevoli, soprattutto in un territorio tanto difficile. È lì, infatti, che Marcone scoprì l’esistenza della corruzione dilagante che avvolgeva per intero la sua città, scoprendo come uomini loschi, legati a clan locali, facevano affari con politici o amministratori pubblici. Un colpo al cuore per un uomo giusto e onesto, dedito al proprio lavoro e animato da un grande senso del dovere. Un uomo esemplare, il cui sacrificio, così come quello di Renata Fonte, non deve essere reso vano da un Paese che spesso dimostra di non avere memoria. Una memoria che va esercitata quotidianamente, tornando anche a parlare più spesso delle vicende e dei vissuti di chi non si è arreso, di chi ha messo la propria onestà e il proprio senso dello Stato davanti a tutto. Fino all’ultimo giorno.

Giovanni Dato -ilmegafono.org