“C’era un bambino che si andava a formare senza la possibilità di scegliere tutto ciò che era peculiare a se stesso. La camorra faceva sentire a tutti una grande paura, e io ero lì a dover ereditare quella violenza e quella cultura patriarcale che mi faceva sentire sbagliata nel mondo”.
Sono le parole di Daniela Lourdes Falanga, donna transgender, attivista Arcigay, che lotta, ogni giorno, per affermare la propria identità e i suoi diritti. Il 12 novembre 2022, il XVII Congresso Nazionale Arcigay elegge la prima Presidente donna, Natascia Maesi. A Daniela Lourdes Falanga viene affidata la delega alla legalità, contrasto alle mafie e carceri.

Daniela nasce a Torre Annunziata (Na). Chiamata Raffaele e figlio primogenito di un boss del clan camorristico dei Falanga, Daniela Lourdes ha vissuto un percorso esistenziale complicato, disseminato di sofferenze, lacrime, schiaffi e offese, per arrivare a essere quella che è oggi: un’attivista per i diritti delle minoranze e una voce contro le mafie. La madre è stata una donna violenta, che aveva introiettato il sistema patriarcale dove era cresciuta. Daniela, da bambino, primogenito ed erede di quella famiglia, non poteva parlare di sé, non poteva dare voce a se stessa, non poteva far nulla di ciò che le piaceva, soprattutto ballare, ascoltare musica o cantare, perché erano “cose da femmine”. Poteva farlo solo nella sua mente, soffocando ogni suo desiderio, ogni sua passione. Conosciamo bene l’atteggiamento delle mafie nei confronti dell’omosessualità e quali aspettative avesse il padre nel suo erede, in colui che avrebbe ereditato “lo scettro” di una vita violenta, all’insegna dei soprusi e del rispetto di quel codice che vede le donne all’ultimo posto e che non vede gli omosessuali, perché è inconcepibile, per un mafioso o camorrista, essere omosessuale o avere un figlio “ricchione”.

Una vergogna, insomma. Una vergogna da tenere nascosta. Un invisibile. Eppure, Daniela, a diciotto anni decide di andar via di casa, decide che deve costruire il suo futuro e che invisibile non è. Sceglie di percorrere la sua strada, contro suo padre, contro la sua famiglia, contro il suo ambiente, contro la camorra, contro la violenza mafiosa. La mafia, abbiamo detto tante volte, si combatte in molti modi e Daniela ha avuto coraggio. Il giornalista Giorgio Terruzzi scrive: “Definire il coraggio non è facile. A me viene in mente la parola ‘responsabilità’. Vale a dire prendersi carico, prendere in carico ciò che ci sta attorno, a cominciare dal proprio destino. Autenticamente, quotidianamente, per quello che è”. Con il coraggio di cui parla Terruzzi, Daniela Falanga si è presa carico del suo destino con un grande senso di responsabilità, rinnegando l’ambiente in cui era cresciuta e in cui cercavano di renderla invisibile.

Gli esseri umani sono anche esseri parlanti e, oltre ad avere un “linguaggio”, hanno anche un “corpo” vivente; quel corpo, negli esseri parlanti, diventa un focolaio di questioni paradossali. Attraverso il corpo, il proprio corpo, lentamente si raggiunge o si cerca di raggiungere una propria identità di genere. Per Daniela, questo processo, provenendo da una famiglia di camorra, è stato più complicato.

“Ero un bambino solo, religioso – racconta Daniela in una intervista pubblicata sul sito Linkiesta – Trascorrevo le giornate nell’idea di una scuola per nulla sicura e di una famiglia, in cui il parlare a voce alta era elemento caratterizzante. Durante la notte mi svegliavano spesso le urla di mia nonna materna, affetta da gravi disturbi psichici. Ma anche la preoccupazione che potesse arrivare da un momento all’altro la polizia. E poi il pensiero costante di una morte che era sempre all’agguato e che a volte desideravo, ma non riuscivo a infliggermi. Trascorrevo i giorni nei tempi dilatati delle attese, dove il vivere era da me percepito come il cessare d’esistere. Sperimentavo inoltre la reverenziale curiosità degli adulti per essere il figlio di un uomo temuto e quella dei ragazzini, che invece osservavano qualcosa fuori da quei ruoli e quelle espressioni che definivano l’uomo come da loro concepito. Per loro ero insomma il ricchione, il femminiello, qualsiasi altra cosa per silenziarmi in classe o farmi smettere di giocare. Mi sentivo un osservatore del mondo, spesso dietro a una finestra, dove guardavo la bellezza della libertà”.

Daniela, dopo molti anni dall’inizio della transizione, incontra nuovamente suo padre, dopo essersi riconciliata con la madre. I due si incontrano per caso, nel 2018, all’Istituto Galiani di via don Bosco, a Napoli, in occasione di una giornata contro la violenza di genere e la transomofobia organizzata da scuola, Aics, palestra Kodocan e Antonello Sannino di Arcigay. È presente anche un gruppo di detenuti. “È stata tosta – racconta Daniela Lourdes Falanga, a Repubblica – Osservavo mio padre sotto gli occhiali scuri. Lui si è seduto accanto a me e ha detto: ‘Credi che non ti abbia riconosciuto?’. Poi mi ha abbracciato. Ero sconvolta. Per la prima volta non ero invisibile ai suoi occhi. Finalmente uno sguardo di pace al bambino che sono stato. Mi sono sentita di nuovo quel bambino, con ricordi fortissimi. E parlavo davanti a mio padre, non era un estraneo”.

La delega alla legalità, contrasto alle mafie e carceri, assegnata a Daniela, è un segnale importante vista la sua storia personale di riscatto e rivendicazione delle libertà tutte e di rifiuto di ogni genere di violenza, soprattutto quella mafiosa. Daniela ricorda un po’ Peppino Impastato, che rifiuta le origini mafiose della sua famiglia e si muove per dare un senso alla sua vita, fatta di ribellione e costruzione, responsabilità e amore, anche se, per dirla con Fossati, ‘spezza le vene delle mani’. Daniela ha attraversato la socialità “in modo infelice”, anche andare a bere un caffè era un problema, a causa delle discriminazioni e degli insulti che sovente, come lei stessa riferisce, portano molte persone al suicidio. Ecco perché si impegna, ogni giorno, ad aiutare le donne trans anziane, che spesso si ritrovano in condizioni miserevoli, collocandole in case di accoglienza di cui, al momento, il nostro Paese non dispone.

La regista Isabella Weiss ha realizzato, sulla vicenda di Daniela Falanga un docufilm “Red Shoes – Il figlio del Boss” , presentato alla 77ª edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Daniela lavora tanto, tra volontariato e attivismo. La sua vita è un esempio per chi crede di non farcela, per chi pensa che non ci sia soluzione, per chi crede di essere solo o sola, magari non sapendo dell’esistenza di associazioni o gruppi di aiuto e sostegno. “Oggi lavoro per il Centro d’Ateneo SInAPSI, nell’ambito dell’Asl Napoli 3 Sud, presso il Consultorio InConTra dove, grazie all’incontro con Giusy Di Lorenzo, donna di grande sensibilità e professionalità, e a un progetto da me scritto, si è realizzata un’esperienza che accoglie decine di uomini e donne trans e persone non binarie al mese, anche minori, insieme con le famiglie, che sono accompagnare “gratuitamente” verso il desiderio agognato della libertà”. E se “il grado di libertà di un uomo si misura dall’intensità dei suoi sogni”, come scriveva la poetessa Alda Merini, Daniela di sogni ne aveva e ne ha ancora tanti. Sogni realizzati e altri ancora da realizzare. Per sé e per chi ad un futuro sereno non ci crede più.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org