Prima che arrivasse il Coronavirus, le lotte ambientali erano all’ordine del giorno: centinaia di migliaia di attivisti, volontari, civili scendevano in piazza a manifestare per portare l’attenzione sul cambiamento climatico, mentre sui social spopolavano video e tutorial su come adottare uno stile di vita ecosostenibile, si compravano shampoo solidi, si stava attenti alla differenziata. Un argomento, però, sempre poco toccato o se toccato, preso spesso con sufficienza e troppa ironia, è la questione dei cosiddetti allevamenti intensivi. Lasciando da parte l’etica e la morale e prendendo in considerazione solo i fatti e le statistiche, non si può più nascondere che questo tipo di allevamento stia causando gravissimi danni al già fragilissimo equilibrio ambientale.

In passato abbiamo già avuto avvisaglie della pericolosità di questi luoghi dove le norme igienico-sanitarie lasciano troppo spesso a desiderare e questi “tuoni in lontananza” hanno nomi propri che tutti ricordiamo: Sars – Aviaria – Suina – Ebola. Sono virus, pandemie che anche se sono state contenute in luoghi “ristretti”, spesso lontani dalla nostra privilegiata quotidianità, hanno mietuto centinaia di vittime. Inoltre, è notizia di questi giorni che in Cina un uomo è stato infettato da una nuova variante del virus della aviaria, finora riscontrata in uccelli selvatici e marini, che non si capisce come abbia mutato per colpire i polli di allevamento. Dopo tutto questo, dopo il caso Aia, dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo una pandemia globale che ha fermato tutto a causa di un contesto non troppo lontano, dopo il recovery plan e tutte le belle parole sulla transizione green, lo Stato continua a sostenere, ansi finanziare sempre più l’industria degli allevamenti intensivi.

La nuova PAC (Politica agricola comune dell’Unione Europea) sta di fatto confermando i finanziamenti per gli allevamenti intensivi in tutta Italia e il sistema che li alimenta. Anche in Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia dove, non a caso, c’è il maggior numero di animali allevati in Italia: parliamo di 4,3 milioni di maiali e 1,3 milioni di bovini stipati in capannoni. Per non parlare del fatto che per la produzione dei mangimi per questi animali si disboscano ogni giorno chilometri quadrati di foreste (specialmente quella Amazzonica), causando gravissimi squilibri nello smaltimento naturale del Co2. Inoltre è già accaduto più volte che i sistemi di smaltimento dei rifiuti degli allevamenti avessero delle pecche(?) rigettando nelle acque dei fiumi tonnellate di escrementi e rifiuti tossici.

Greenpeace Italia ha lanciato una campagna con tanto di petizione chiamata “Carne a basso costo, futuro ad alto rischio”, per chiedere al governo di rivedere le sue scelte “green” e soprattutto chiedere una più serrata regolamentazione degli allevamenti, così da fermare l’industria dei virus.

Qua non stiamo parlando di vegani e carnivori, non stiamo parlando della questione morale su “giusto o sbagliato mangiare carne”, né stiamo additando i consumatori (anche se marginale, qualche colpa ce l’hanno). La società dei consumi, figlia prediletta del capitalismo, vuole questo perché produrre è più importante di vivere. Lasciando un attimo da parte l’etica sulle condizioni agghiaccianti in cui gli animali da allevamento vengono trattati, se non capiamo che queste condizioni sono cause scatenanti di reazioni a catena che ci colpiranno più violentemente di come strappiamo i vitelli dal grembo materno, perché la “carne è più bona così”, conviene prepararci al peggio. Nessuno dice di smettere di mangiare carne, ma se vogliamo sopravvivere dobbiamo imparare a farlo con coscienza.

Sarah Campisi -ilmegafono.org