Rosa Louise McCauley è una giovane di colore originaria di Tuskegee, nell’Alabama, ed è legata alle idee etiche di quella branchia profondamente spirituale del protestantesimo che è il metodismo. A 19 anni decide di prendere marito: la scelta cade su Raymond Parks, un tipo abbastanza conosciuto in zona per via della sua partecipazione attiva nella lotta per l’affermazione dei diritti civili.

Si sposa, e per tutti diventa Rosa Parks.

Rosa e Raymond vanno a vivere nella capitale dell’Alabama, Montgomery, una città decisamente americana: fino a cinquanta anni addietro portava orgogliosamente sul petto la medaglia di prima capitale degli Stati Confederati d’America. A Montgomery, “America” è molto più di un termine geografico, di una localizzazione, di un’indicazione legata all’anagrafe: è un simbolo, la rivendicazione di un’appartenenza, un’idea di senso comune, di grande famiglia. E c’è da giurare che a Montgomery le leggi sono rispettate e fatte rispettare. Rosa si impiega in un grande magazzino, dove trova il posto di sarta. La vita, compatibilmente con le restrizioni legali legate al colore della sua pelle, scorre abbastanza bene, senza grandi intoppi.

Passano dieci anni e decide di dare un contributo, anche lei, alla lotta per i diritti civili: aderisce al Movimento e diviene segretaria della sezione di Montgomery di una delle Associazioni più importanti d’America, la “NAACP”, cioè l’Associazione Nazionale per la Promozione delle Persone di Colore. Ne passano altri dieci, di anni, e Rosa decide di coltivare più a fondo quell’impegno, nonostante al fianco del marito abbia già preso parte ad azioni importanti, come la campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro: inizia così a frequentare l’Highlander Folk School, una sorta di centro educativo, senza scopo di lucro, nato per la formazione al lavoro e cresciuto nel tempo fino a sviluppare un programma di alfabetizzazione per i neri ai quali è stato impedito di iscriversi al voto in base ai requisiti di alfabetizzazione. C’è un uomo che parla di questo tutti i giorni. Lo senti in radio, puoi leggere le sue parole sui giornali. Si chiama Martin, e crede, come ormai si continua a dire da decenni nonostante qualcuno minimizzi, che i neri in America vengano oppressi. Rosa lo segue, lo ascolta, parla di lui.

L’anno scorre via tranquillo e in generale è un anno senza avvenimenti di grandissimo rilievo, un po’ dappertutto. Per fare un esempio, a un bel po’ di chilometri di distanza, in Italia, gli eventi sono più o meno i soliti: la libreria “Rinascita” viene assalita dai neofascisti, e dai banchi del Parlamento i partiti di sinistra chiedono lo scioglimento del gruppo a cui i neofascisti fanno riferimento. Sempre in Parlamento, poi, fanno discutere anche i Radicali, per le vicende che li vedono al centro del dibattito politico. Una cosa un po’ più importante va registrata sul finire dell’anno, quando vengono gettate le basi per un accordo bilaterale con la Germania legato al delicato tema dell’immigrazione, lì oltralpe: per il reclutamento della manodopera italiana viene aperta una strada prioritaria, con la previsione che nel giro di qualche anno in milioni, soprattutto dal Sud, espatrino per lavoro. D’altronde il costo della vita si alza: per un televisore servono 160.000 lire e una nuova Fiat 600 è arrivata a costare 590.000.

Ah: l’anno è il 1955.

Proprio alla fine di quest’anno tranquillo, nei giorni in cui si discute di quell’accordo per gli emigrati italiani, Rosa, lì a Montgomery, è protagonista di un fatto importante. È l’1 dicembre, fa freddo, e lei, ora quarantaduenne, ha finito il turno. Come ogni giorno è in attesa dell’autobus per tornare a casa: il 2857 della Montgomery City Bus Lines, diretto a Cleveland Avenue. L’autobus passa, si ferma, apre le porte. Rosa sale, paga il biglietto, dà un’occhiata ai posti e nota che quasi tutti sono occupati. Scorge un posto libero nella zona dei posti comuni, subito dopo quelli riservati ai bianchi, e va a sedersi lì. L’autobus parte, fa una, due, tre fermate. Alla terza fermata l’autista, James Fred Blake, con un passato da militare (e un futuro da membro attivo della chiesa battista), chiede a Rosa e ad altri tre passeggeri di colore di alzarsi per fare posto a un bianco appena salito.

Rosa conosce James: otto anni prima era salita su un bus guidato da lui, ma aveva commesso l’errore di scegliere la porta anteriore, riservata ai bianchi, e quando stava per sedersi, dopo aver pagato, James l’aveva fatta scendere intimandole di salire dal retro. Rosa, una volta scesa, aveva deciso di non risalire e aspettare un altro autobus. Per ben otto anni, poi, era riuscita a mantenere il giuramento fatto con se stessa di evitare le vetture guidate da Blake. Stavolta, però, è salita. E adesso si trova di nuovo di fronte a una limitazione della sua libertà.
Si rifiuta di alzarsi, mantenendo un atteggiamento calmo.

Blake insiste, ma il rifiuto della donna è netto. Allora lui chiama la compagnia dei bus, che però allarga le braccia, quindi chiama la polizia, memore del fatto che il codice cittadino, cioè la legge, dice che gli autisti di mezzi pubblici hanno pieni poteri sugli assegnamenti dei posti in base alla razza. Arrivano due agenti, arrestano Rosa, compilano il verbale di arresto. Blake lo firma: più avanti dichiarerà che aveva solo cercato di far rispettare la legge. Perché a Montgomery le leggi sono rispettate e fatte rispettare.

Rosa, in arresto, viene multata di 10 dollari più altri 4 per le spese processuali, ed è tradotta in carcere per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine. Clifford Durr, avvocato antirazzista, bianco, decide di pagare la sua cauzione: la sera stessa Rosa è libera. In giro si comincia a parlare di quello che è accaduto. Martin, l’uomo che parla dell’oppressione dei neri, si pone in testa a cinquanta leader della comunità afroamericana: iniziano le proteste. Per 381 giorni i mezzi pubblici di Montgomery vengono boicottati, e le proteste si allargano a tutto l’Alabama, a tutti gli Stati Uniti. Si fanno sentire in quarantamila fra uomini e donne di estrazioni sociali diverse. E poi chiese, associazioni, gruppi.

Un anno dopo, il caso di Rosa Parks arriva alla Corte Suprema, e si conclude con una decisione storica: la segregazione sui pullman dell’Alabama è dichiarata incostituzionale. Rosa diventa un simbolo, the Mother of the Civil Rights Movement. Le vengono recapitate minacce, minacce di morte, è costretta ad andare via da Montgomery, insultata, ma non si ferma. Nel 1999 riceve la Medaglia d’oro del Congresso. Il mondo cambia. Rosa muore nel 2005, ma il cambiamento avanza. Sette anni dopo, a cinquantasette anni di distanza dall’arresto di Rosa, gli Stati Uniti avranno un Presidente nero. E lui sceglierà di farsi fotografare dentro il bus 2857, divenuto un pezzo da museo. Seduto al posto che Rosa non volle cedere.

Passano pochi anni da quella foto storica di Obama sul 2857. Sette, ancora una volta.

Al largo di Lampedusa una nave con a bordo 42 migranti salvati in mezzo al Mediterraneo forza il blocco imposto dall’Italia e fa sbarcare sul suolo italiano i richiedenti asilo, nel rispetto della convenzione di Amburgo del ’79 e delle altre norme sul soccorso marittimo, considerando Lampedusa il primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica a dove è avvenuto il salvataggio, sia per il rispetto dei diritti umani (Libia e Tunisia non possono essere considerate tali, nonostante la vicinanza, e altri paesi sono logisticamente troppo lontani).

Una volta sbarcati, alla capitana della nave Carola Rackete viene urlato da alcuni isolani “spero che ti violentino questi ne**i, a quattro a quattro te lo devono infilare, ti piace il c**zo nero”, mentre alle donne migranti urlano “zingara, venduta, tossica, vattene in galera, drogata. Vai dalla Merkel, vergogna. Le manette!”. Sui social il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, accusa la capitana di avere infranto la legge e la chiama “sbruffoncella che fa politica”, mentre molti altri pubblicano svariati insulti: le augurano, ad esempio, “impalamento (con tubo d’acciaio che le entro dalla f**a e le esca dalla bocca) in pubblica piazza”, oppure auspicano che qualcuno venga a “raparla a zero e metterla al gabbio a pane ed acqua”, o, ancora, le suggeriscono di “andare a pijallo ‘n der c**o in Africa”; viene inoltre descritta come “zecca” o “zecca di ma**a” o “schifosa di ma**a” o “baldracca” a cui interessa “preservare quello che hanno i clandestini tra le gambe”.

Ah: l’anno è il 2019.

Rosa Parks è deceduta quattordici anni prima, dopo aver contribuito a migliorare il mondo. Che è appena tornato indietro di oltre sei decenni.

Seba Ambra -ilmegafono.org