Uomo di teatro, attore, drammaturgo, artista a tutto tondo, premio Ubu al miglior testo nel 2016, poeta: Tindaro Granata è stato nominato nuovo direttore artistico del Teatro Greco di Tindari, in Sicilia, un riconoscimento arrivato ad una persona che ha fatto del suo lavoro una ragione di vita, uno scopo, una “missione” mistica e sensuale. Ho avuto il privilegio di sentire la sua voce e di rivolgergli alcune domande, rispetto a questo nuovo incarico e ha risposto con la schiettezza e la sincerità che lo contraddistingue e lo rende speciale.

Diventare il direttore artistico del teatro greco di Tindari è come essere “ripartorito” nuovamente, nei luoghi della nascita e della prima formazione. Cosa significa per te cominciare questo nuovo cammino?

Non avrei mai immaginato di diventare direttore artistico di quel luogo, quindi, per me, è come se fosse arrivato un regalo inaspettato, una cosa preziosa che non ti aspettavi di poter ricevere. Ho un senso di grande gratitudine, di grande ritorno alle mie origini, alla mia terra e tutto mi sarei aspettato tranne che ritornarci proprio così. La sensazione che ho è di gratitudine nei confronti di quel luogo in cui io abitavo quando ero bambino, quand’ero ragazzo; è come se ritrovassi una parte di me che ho lasciato lì, che non è partita e che mi attendeva.

Cosa ci sarà di Tindaro e del suo vissuto personale e artistico nelle idee per il teatro greco?

Ci sarà tantissimo. Intanto ci saranno i miei amici e le mie amiche. Chiamerò tutti gli artisti validi che possiamo permetterci di portare, perché, ovviamente, dovremo tener conto delle risorse disponibili. Sicuramente chiamerò, in primis, tutte le persone che conosco, che seguo e che stimo per il loro talento, per la loro personalità. Ci saranno tutte le persone che apprezzo, a cui voglio bene e tutti coloro che, secondo me, fanno un bel teatro. Quello si ritroverà di me: le mie relazioni, gli amici e le amiche.

Cosa significa per te fare teatro e vivere di teatro?

È una domanda particolare poiché è molto cambiato il rapporto che ho con la mia professione dopo il Covid. Per me, fare teatro adesso, significa avere la forza e il coraggio di non farsi togliere più niente dalla vita quotidiana, nel senso che, dopo il Covid, ci siamo privati di tutto, ci è stata tolta la socialità, ci sono stati tolti i luoghi, i posti, le abitudini. Ancora adesso, dopo due anni, è rimasta questa lontananza dalle nostre vecchie abitudini, quelle più sane: andare al cinema, a teatro, per mostre e musei, avere una socialità arricchente. Tutto questo ha impoverito l’animo umano e la cosa più triste è che la gente si è quasi abituata a tutto ciò, perché l’essere umano si abitua a vivere nella povertà culturale, di idee, di stimoli. Oggi, per me, vivere il teatro è vivere in missione, la missione di dimostrare che attraverso l’arte, il teatro, il cinema, le arti in generale, dalla danza alla musica, l’essere umano può sognare, può immaginare, può progettare e diventare migliore di quello che è. Credo in tutto questo e ci credo, in modo ancora più forte, dopo la pandemia.

Sciascia definiva la Sicilia “terra irredimibile”. Pensi che questa definizione sia superata e che ci sia una speranza per questa isola-continente?

Di Sciascia, nel 2021, abbiamo ricordato il centenario dalla nascita. Da certi punti di vista aveva ragione, se pensiamo agli anni in cui visse e a quello che sarebbe accaduto dopo, negli anni Novanta, soprattutto in Sicilia. Mi auguro che siano le nuove generazioni a perdere le cose peggiori che i nostri vecchi ci hanno consegnato e che siano le stesse generazioni a capire quali sono le parti migliori che i nostri anziani e le nostre anziane ci hanno consegnato. Le nuove tecnologie, la globalizzazione, questo essere fuori da noi, se da un lato è un’opportunità, dall’altro è molto pericoloso. Perdere riti e radici può farci perdere di vista il nostro essere umani. Che la Sicilia si possa riscattare è difficile ma non impossibile. Basta spargere dei semi. Da qualche parte germoglieranno.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org