Frontiere, confini, clandestini, richiedenti asilo, CPR, rimpatrio. Parole che si sono insinuate un giorno alla volta nella nostra vita, come il risultato di una partita lunghissima e non ancora terminata. Gli uomini hanno sempre avuto bisogno di un nemico, di un alibi per tutte le proprie miserie e i propri limiti. E il nemico è facile da individuare, ogni epoca ha sempre saputo trovarlo. Oggi, in un mondo sempre più spaccato da disuguaglianze, guerre e miseria, il nemico è il migrante. Sembra incredibile che l’Europa e l’Italia non riescano a ricordare la propria storia, di cui il colonialismo e la migrazione sono capitoli interi, che raccontano quando i confini e le frontiere eravamo noi a valicarli, qualcuno per creare imperi e qualcuno per cercare una vita più degna. Oggi questo passato viene dimenticato e, in nome della sacralità dei nostri confini, la parte peggiore di questa Europa e di questo Paese ha cucito addosso al migrante il vestito del clandestino. Un vestito confezionato con leggi e decreti, in modo che tutto possa apparire legale. Ma così non è.

La prima ferita inferta ai richiedenti asilo è l’etichetta di migrante irregolare, quindi di clandestino. Difficile cogliere e accettare questa distinzione per chi fugge da guerre, dittature e miseria, ma le leggi degli Stati fanno di questa distinzione la pregiudiziale regina e allora il clandestino diventa il virus che deve essere espulso dal tessuto sociale. Nel nostro Paese l’odissea dei richiedenti asilo passa attraverso un percorso umiliante e lunghissimo. Qualcuno arriva alla meta, molti altri conoscono l’apice dell’umiliazione nel momento in cui entrano nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr).

Come e perché si entra nei Cpr?
Le disposizioni relative alla cosiddetta “immigrazione illegale” consentono di estendere la privazione della libertà a tutti gli stranieri privi di un permesso di soggiorno o di qualunque titolo di ingresso nel nostro Paese. È così, per questo motivo, che si entra in un Cpr: per una “detenzione amministrativa”, una norma nata nel 1995 che avrebbe dovuto essere eccezionale e temporanea per una durata massima di 30 giorni. Di fatto, con il passare degli anni e con nuove leggi e decreti (Turco-Napolitano e Bossi-Fini, fino al decreto Minniti), la detenzione amministrativa è diventata la vergognosa forma di detenzione che oggi conosciamo. Il governo Meloni ha promesso nuovi Cpr, ha esteso a 18 mesi il tempo massimo di detenzione e ha introdotto la vergognosa cauzione che i migranti devono pagare per non entrarvi. Considerando che quasi il 60% delle richieste di asilo vengono regolarmente respinte, e tenuto conto dei 18 mesi di trattenimento massimo, è del tutto evidente che la popolazione dei detenuti aumenterà vertiginosamente nei prossimi anni.

Come si vive nei Cpr?
Prima di tutto occorre non dimenticare mai che chi entra in un Cpr è un cittadino straniero in attesa di espulsione verso il suo Paese di origine, cioè il posto da cui è scappato, con una sola eccezione: non possono essere espulsi i minori e le donne in stato di gravidanza. Questa attesa si consuma in strutture chiuse, presidiate da tutte le forze dell’ordine: Polizia di Stato e Carabinieri, Guardia di Finanza ed Esercito, e dove le uniche aree non coperte da telecamere sono i bagni. All’interno dei Cpr lo “Stato di diritto” non esiste, al punto che le condizioni di vita sono peggiori di quelle di un carcere: i detenuti non ricevono informazioni sui loro diritti, sono identificati con un numero e il contatto – e quindi il colloquio – con un avvocato o con un operatore avviene attraverso le grate. Non esiste una sala colloquio, non esiste nessuna di quelle strutture come biblioteche e laboratori che pure esistono nelle carceri, le condizioni igieniche sono pessime e non esiste nessuna riservatezza. L’uso del telefonino, quando concesso, diventa l’unica possibilità di comunicazione e di contatto con il mondo esterno.

La dignità della persona non esiste più dentro un Cpr e la violenza ha mille facce: dagli atti di autolesionismo ai suicidi, fino alla somministrazione di psicofarmaci assolutamente arbitraria, che diventa un terribile strumento di controllo sociale sui detenuti stessi. Nella primavera di quest’anno l’inchiesta di Altreconomia, “Rinchiusi e sedati”, evidenzia in tutta la sua gravità questa situazione: “Mentre sono addormentati o storditi le loro richieste diminuiscono: così le persone trattenute nei Cpr non mangiano, non fanno casino, vengono rimpatriate e non pretendono i propri diritti”. La macchina delle espulsioni nella “civile Italia” del nuovo millennio funziona così.

Rimpatrio, non è la parola giusta.
Nel momento in cui l’espulsione diventa concreta e reale si verifica il secondo atto della tragedia. Il richiedente asilo che torna al Paese di origine ci torna da uomo sconfitto, umiliato. Il ritorno nel luogo da cui era scappato, per sfuggire a guerre o dittature, miseria e povertà, diventa una ferita ancora più profonda. Ci torna senza un lavoro, senza una casa, senza un futuro. Quel futuro che qualche volta aveva saputo costruire con dignità nel Paese in cui era riuscito ad approdare, magari trovando un lavoro e costruendo nuovi legami affettivi. Perché in un Cpr ci si può entrare anche dopo anni in cui la vita aveva preso un’altra strada, ma per mille motivi si perde il lavoro e, perdendo il lavoro, si può perdere il permesso di soggiorno e, senza un permesso di soggiorno, si diventa invisibili nella terra di nessuno. Allora la parola “rimpatrio” assume un altro significato e diventa una “deportazione”, uno strappo che lascia una ferita difficile da rimarginare.

Esiste un film-documento che racconta tutto questo con grande sensibilità: il documentario “The Years We Have Been Nowhere” (guarda qui il trailer), dei registi Lucio Cascavilla e Mauro Piacentini. Un documentario che dovrebbe, a pieno titolo, essere proiettato nelle scuole per la sua importanza e per la delicatezza con cui sono raccontate alcune storie di quell’umanità respinta e rigettata nel vuoto da cui era riuscita a scappare e che, fra mille difficoltà, aveva imparato una lingua che non conosceva e aveva saputo ricostruire una vita. Certo, il temine “deportazione” è un termine forte, qualcuno rifiuta di associarlo al rimpatrio forzato di chi, con cinismo e freddezza, viene definito “irregolare” o “clandestino”, ma di questo in concreto si tratta. Nella città di Milano, che in una delle sue periferie “ospita” il Cpr di via Corelli, sono attive da tempo associazioni che operano nel perimetro dell’accoglienza e del sostegno sociale e legale a questa umanità spinta ai margini della vita. È un compito difficile, che dovrebbe coinvolgere le istituzioni e i cittadini, ma che invece troppe volte trova un muro di indifferenza. Il 25 ottobre, fra pochi giorni quindi, l’associazione NAGA, in collaborazione con la rete “Mai più Lager-No CPR”, presenterà il report-denuncia, dettagliato e documentato, di un anno di osservazione su quanto accade dentro il Cpr di via Corelli a Milano.

Chi ci guadagna con i Cpr?
Infine un’ultima considerazione che è impossibile ignorare: chi gestisce i Cpr, chi ci guadagna, a chi tornano utili? Secondo un rapporto di  qualche anno fa dell’organizzazione europea “Migreurop”, mantenere in vita i Cpr è diventato un business nelle mani delle aziende private che li gestiscono. In Italia, le strutture sono di competenza delle prefetture, che poi affidano la gestione di tutti i servizi interni a soggetti privati. Nel triennio 2021-2023, il ministero dell’Interno ha emesso bandi per decine di milioni di euro per la gestione dei Cpr esistenti in Italia. Ad aggiudicarsi i bandi sono stati i nomi di grandi multinazionali e potenti cooperative, perché i Cpr, oltre ad essere lager istituzionalizzati, dove il diritto non entra, sono anche e soprattutto un grande business sulla pelle dei disperati.

Fra i giganti di questo vergognoso settore la Ors (Organisation for refugees services): società con sede a Zurigo, più di mille dipendenti e che sul proprio sito internet si presenta come “leader nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa”. Fino al 2021 gestiva le strutture in Svizzera, Austria e Germania. Nel 2018 nasce Ors-Italia (Srl controllata dalla casa madre) e il business continua (leggi qui). Cinicamente, sulla pelle degli ultimi.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org