Non chiamatela tragedia. Perché una tragedia può essere casuale, imprevista, mentre quella avvenuta nella notte tra sabato e domenica, a largo di Steccato di Cutro, nel crotonese, era annunciata. Chiamatela strage, perché di questo si tratta. Una strage nella quale sono morte 64 persone, ma si stima che in realtà siano molte di più, circa 100. Uomini, donne, adolescenti e bambini, in prevalenza di nazionalità afgana e pakistana, ma anche somala, palestinese, irachena e iraniana. Più semplicemente, esseri umani fuggiti dai loro Paesi, da situazioni terribili, da contesti nei quali le guerre hanno lasciato ferite profonde e ancora ne lasciano. Sono persone, individui, famiglie che, in mancanza di vie legali, scelgono di affidare la loro flebile speranza al traffico di esseri umani, spendendo tutto quello che hanno o riescono a raccogliere da amici o parenti per giocarsi una opportunità di vita. I loro Paesi sono incubi, inferni dilaniati da conflitti e situazioni di cui anche il cosiddetto “Occidente” è pienamente responsabile.

Può apparire tautologico ripetere questi concetti, ribadire le ragioni che portano migliaia di persone a prendere la via del mare, aggrappandosi a un filo che può spezzarsi in un attimo, esattamente come il legno di una barca colpita dalla ferocia delle onde. Eppure è necessario ribadire, ripetere, spiegare queste ragioni a un Paese che è sempre più maledettamente indifferente e a un governo che è sempre più vergognosamente complice e crudele. No, non è una tragedia, quella di Crotone, ma una strage di Stato. Perché quella imbarcazione, al contrario di quanto affermato dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, era stata avvistata e, differentemente da quello che dicono le istituzioni e sulle cui responsabilità è stata aperta una indagine, poteva essere tratta in salvo. Sarebbe bastato che a bordo non vi fossero migranti disperati, ma italiani, possibilmente dell’élite di questo Paese ingiusto, violento, xenofobo. Un Paese che è perfettamente rappresentato da questo governo e anche da quelli che lo hanno preceduto.

Perché questa è l’Italia, quella che si lamenta con l’Europa ma che da anni conduce in prima linea una guerra contro i migranti e contro chi li salva esercitando il diritto internazionale. Siamo l’Italia dell’eterna Bossi-Fini, quella di Marco Minniti, del Memorandum Italia-Libia, di Matteo Salvini e dei suoi decreti vergogna, della neopremier che voleva affondare le navi delle Ong. Siamo l’Italia del “carico residuale” e della gente tenuta ostaggio dentro le navi e, guardano ancora più indietro, siamo l’Italia di Maroni e dei respingimenti. La nazione di Piantedosi e del nuovo decreto che punisce le ong e le ferma in porto, togliendo dal Mediterraneo gli ultimi testimoni, gli unici rimasti a salvare vite umane e ad evitare che si ripetano queste stragi. Ecco perché c’è bisogno di ribadire, di spiegare, di far capire che l’unico “pull-factor”, il cosiddetto fattore di attrazione per i migranti, non è la presenza delle ong o dei mezzi di soccorso ma è la disperazione, sono la paura e l’impossibilità di restare nel proprio Paese che inducono la gente ad affrontare i rischi. Paura e disperazione per sé e per i propri figli.

Piantedosi lo sa ma finge di non sapere. Usa il suo potere per inquinare le acque con le quali disseta quella parte di popolo italiano che, per anni, è stato nutrito con menzogne e odio e che, oggi, come una folla di forcaioli sotto un patibolo, vuole la linea dura, quella della “sicurezza”, non contro le mafie alle quali gli italiani si inchinano, ma contro dei poveri cristi. Il ministro dell’Interno, davanti all’orrore che arriva a poca distanza di tempo dai suoi provvedimenti contro chi salva la gente in mare, invece di dimettersi e chinare il capo, si lascia andare a dichiarazioni offensive e agghiaccianti, che hanno lo stesso tenore di chi, davanti a uno stupro, accusa chi ne lo ha subito e non lo stupratore. “L’unica cosa che va detta ed affermata è: non devono partire”, ha commentato subito dopo la strage. Concetto riconfermato, allargato e peggiorato a breve distanza: “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo le vita dei propri figli”.

La riprova della totale assenza di comprensione e dell’incapacità di individuare soluzioni per evitare la sofferenza e la morte di chi scappa dall’inferno. E non servono poi i tentativi di correzione a quello che è un pensiero che attraversa la mente della maggioranza che guida il Paese e dei suoi esponenti, che di concetti così atroci ne hanno espressi tanti in questi anni. Peraltro è la stessa posizione della premier Meloni, la quale, dopo aver espresso il suo dolore per i morti, ha chiosato parlando dell’impegno del governo finalizzato a impedire le partenze. In poche parole, per evitare l’orrore del viaggio, si decide di lasciare la gente nei luoghi dai quali cercano giustamente di scappare, in modo che possa morire senza disturbare le nostre coscienze. E qui si inserisce l’ennesimo, delirante pensiero di Piantedosi, che ha affermato: “Anche se fossi disperato non partirei perché sono stato educato anche alla responsabilità, di non chiedermi sempre io che cosa mi devo aspettare dal Paese in cui vivo ma anche quello che posso dare io al Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso”.

Talmente imbarazzante questo modo di ragionare, che si commenta da solo. Abbiamo un ministro dell’Interno che, dal cielo sereno della sua nazione, dalla comodità del suo vissuto, dispensa consigli a chi vive sotto regimi sanguinari, dentro conflitti feroci, tra i proiettili, i massacri, le fazioni terroristiche e i gruppi di pulizia etnica. Talmente disarmante la pochezza delle parole del ministro da risultare surreale, soprattutto davanti a un dramma come quello che i superstiti e i familiari delle vittime stanno vivendo. Per fare un esempio comprensibile persino a un elettore di Giorgia Meloni, secondo la visione di questo governo, della sua premier, dei suoi ministri, se dei criminali dessero fuoco alla casa in cui vivono delle persone, queste ultime dovrebbero rimanere lì, a cercare di spegnere le fiamme con i bicchieri d’acqua, a guardare il soffitto crollare e il fuoco avanzare. Senza chiamare i vigili del fuoco, ma restando in quella casa, per cercare di salvare il salvabile.

Questa è la logica, non quella di punire e fermare i criminali, che non sono solo gli scafisti, ma i capi del traffico di esseri umani, le organizzazioni criminali, che riempiono i palazzi e le istituzioni dei Paesi con i quali il governo italiano tratta, si accorda e intende intensificare i rapporti. Sulla pelle delle persone, usate come merce o come valuta di scambio. Questa, naturalmente, non è invenzione di questo governo, ma è una strada tracciata da tempo, che però Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi e Matteo Salvini intendono riempire di ulteriori abomini. Con l’avvallo di un Paese che mostra la sua indifferenza o che al massimo sprofonda in una retorica del dolore inutile e appiccicosa, ragionando di questo orrore solo quando coinvolge bambini o quando è possibile tirar fuori i dettagli più strazianti. Si infligge qualche giorno di dolore da ingurgitare e poi vomitare via davanti a una nuova notizia, diversa e lontana. Un dolore a tempo, insomma, che poi diventa cenere soffiata via dal vento dell’oblio. Fino al prossimo naufragio, fino alla prossima strage. O meglio fino a quella che, suo malgrado, riuscirà a diventare notizia.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org