Nelle ultime settimane, ​​la città di Siracusa è stata al centro dell’ennesima burrascosa polemica riguardante la privatizzazione dell’area naturale della Pillirina, situata nella Penisola Maddalena, le cui acque a loro volta fanno parte dell’Area Marina Protetta del Plemmirio. Si vuole privatizzare la zona terrestre limitrofa alla leggendaria grotta della Pillirina, una zona in cui resistono le rovine della batteria “Emanuele Russo” risalenti alla Seconda guerra mondiale. Dell’infinito patrimonio naturalistico, artistico, storico e culturale contenuto nella parte terrestre della Penisola Maddalena, abbiamo parlato altre volte. Così come abbiamo affrontato il tema della battaglia tra il marchese Di Gresy, con la sua società Elemata Maddalena, e le associazioni e i cittadini siracusani.

Ad aprile 2021, la Soprintendenza dei Beni Culturali di Siracusa, dopo anni di lotte, ha firmato le autorizzazioni per  il recupero e la ristrutturazione di tali casermette, per trasformarle in residenze civili (ma questa sarebbe una destinazione d’uso diversa, elemento da non trascurare). A maggio 2022, il frontman dei King of Convenience, Erlend Øye, che da anni vive a Siracusa, ha pubblicato un post sui social in cui denunciava che personale al servizio del marchese gli avesse impedito il normale accesso alla spiaggia. Si è poi scoperto, però, che  il divieto di accesso da quel tratto è stato disposto dalla capitaneria di porto per il concreto rischio di crolli, legato all’erosione. Intanto, il musicista aveva offerto di vendere la sua casa in Norvegia, del valore di un milione di euro, e dare il ricavato al marchese affinché liberasse la Pillirina. Un gesto nobile, dall’impatto mediatico notevole dato che, dopo 15 anni di lotte, la questione ha nuovamente avuto risalto nazionale, ma poco risolutiva.

Il problema di fondo è, infatti, molto più grande e complesso di quanto ci si aspetti. Il caso Pillirina altro non è che un piccolo nodo di un gigantesco groviglio globale che vede alle due estremità il turismo e il capitalismo. Tutto quello che sta nel mezzo è il risultato di più di un secolo massificazione, globalizzazione, riduzione di tutto a bene di consumo usa e getta, un futile contenuto che ci dà l’illusione di riempire il nostro contenitore con qualcosa che ci interessa, ma del quale, in realtà, non sappiamo assolutamente niente. Ci è cascato anche il turismo. La massificazione del turismo ha fatto sì che pure l’arte e la cultura – e di conseguenza il nostro patrimonio – siano state inghiottite da questo meccanismo contorto, con l’unica conseguenza di avviarsi a un destino di distruzione per incuria.

Musei e monumenti ridotti a scenografie da postare su Instagram, parchi urbani e naturali declassati a location per feste ed eventi esclusivi, cementificazione e sterminazione di interi habitat perché il turista “per bene” deve stare comodo mentre sorseggia il suo drink nella sua postazione lettino+ombrellone a 70 euro al giorno. L’esperienza del viaggio, la scoperta, il piacere della conoscenza mosso dalla più pura ed infantile forma di curiosità, sono stati archiviati per disegnare una satura, patinata e standardizzata mappa ripetuta all’infinito che ha reso tutto uguale a tutto. E questo è deleterio. La diversificazione dell’offerta è diventata una bufala, perché anche quella diversità è ormai standardizzata. E quando anche l’offerta culturale – che in primis dovrebbe rappresentare la rottura degli standard – si appiattisce, l’annichilimento del pensiero collettivo porta non solo a non riuscire più a provare sincero stupore davanti ad una qualsiasi testimonianza artistico/culturale, ma anche a dare tale offerta così tanto per scontata che il passo successivo sembra essere inevitabilmente l’estinzione.

Le città sono diventate grandi parchi divertimenti volti al consumo di esperienze fotocopiate da dare in pasto all’opinione pubblica, nella speranza che delle interazioni virtuali riescano a riempire il vuoto che la cultura dovrebbe colmare. Ne abbiamo sempre più testimonianza, come nel caso del custode “annoiato” del museo russo che ha disegnato degli occhi in un quadro di Anna Leporskaya (leggi qui), o della anziana che ha preso la giacca dal museo di Picasso di Parigi e se l’è fatta accorciare dalla sarta (leggi qui). O ancora, la più recente storia della turista americana che ha lanciato un monopattino elettrico lungo la scalinata di Trinità dei Monti a Roma, danneggiandola (leggi qui).

Da un punto di vista razionale, si riesce poco a colpevolizzare gli autori degli atti. Il ruolo primo della cultura è indubbiamente l’educazione, e come società contemporanea ci si aspetta un sistema educativo capace di fare fronte alle esigenze di tutti gli individui, di ogni categoria, appartenenza, etnia e religione. Dunque, se quando un bambino adotta un comportamento errato a scuola bisogna cercare di comprendere il background a cui appartiene per definire la migliore strategia risolutiva affinché comprenda al meglio il suo errore e come rimediarne, perché non applicare lo stesso principio in questi casi? Allo stesso modo si può solo sorridere davanti all’opinione di quella fetta di pubblico che pensa che trasformare il Teatro Greco di Siracusa in un palco per concerti pop.

Il punto è che bisogna riappropriarsi dello scopo primo dell’arte, quello didattico/educativo, in quanto unico mezzo capace di esprimere qualsiasi tipo di linguaggio per poter essere compreso da qualsiasi tipo di pubblico. E finché non riusciremo a comprendere questo, saremo destinati a vedere umiliato il nostro patrimonio culturale e artistico. E a rischiare di certificarne, fra non troppo tempo, la sua estinzione, in ogni senso.

Sarah Campisi -ilmegafono.org