Nei college e nelle università americane gli studenti proseguono e intensificano le proteste contro il sostegno politico e militare degli USA a Israele. Chiedono ai vertici universitari di bloccare i rapporti con Israele e di revocare gli investimenti in aziende che producono armi. La “Columbia University”, una delle università americane più prestigiose, investe miliardi di dollari in compagnie che fanno affari con Israele. Richieste che le università non hanno alcuna intenzione di recepire e ascoltare. La risposta è stata l’ultimatum intimato agli studenti di lasciare i campus e interrompere le occupazioni e le proteste. È una vera ondata di brutale e violenta repressione poliziesca quella che colpisce gli atenei più prestigiosi: gli arresti sono centinaia e i filmati di questa repressione stanno facendo il giro del mondo.

Fra gli arrestati anche molti docenti che hanno preso le difese degli studenti. Eppure, nonostante questo enorme schieramento di polizia militarizzata, le proteste non si fermano ma crescono di giorno in giorno: alla Columbia University si aggiungono anche il Massachusetts Institute of Technology, l’Università del Michigan, l’Università del New Mexico, l’Università della California, Berkeley, Princeton University, e il campus delle Twin Cities dell’Università del Minnesota. È una mobilitazione come non si vedeva da decenni, che cresce e si diffonde in tutto il Paese. Reprimere con la forza le proteste degli studenti, alimentare le paure collettive e trasformare in antisemitismo ogni critica e ogni dissenso alle politiche dello Stato di Israele, non rappresenta solo un limite alla libertà di espressione ma diventa anche un chiaro proposito di formare una precisa e futura classe dirigente.

C’è un altro aspetto che occorre sottolineare: perché i rettori di queste università – prestigiose certo, ma soprattutto costose e private – chiedono a gran voce l’intervento della polizia? Forse per non perdere il sostegno dei loro principali finanziatori? C’è un America che si ribella e, come nel 1968, è nelle università che si accende la luce sul buio di un mondo sbagliato e violento. E, come già in passato e in ogni angolo del mondo, sugli studenti si scatena la repressione. Chissà se questa ribellione potrà assumere le proporzioni del 1968, quando gli studenti protestavano contro la guerra del Vietnam, quello che è certo è che il dissenso contro le politiche degli USA e dello Stato di Israele e le proteste contro il genocidio in atto a Gaza toccano un nervo scoperto della politica e della società americana, e non solo.

Ad alimentare un clima che diventa sempre più teso e pericoloso collaborano in molti, anche fuori dai confini degli Stati Uniti e l’informazione gioca come sempre un ruolo di primo piano, nel bene e nel male: in Italia c’è chi non riesce mai a smentirsi e così, già il 12 dicembre 2023, quando nelle università americane sbocciavano le prime voci di protesta, Federico Rampini scriveva un articolo sul “Corriere della Sera”, di cui queste righe sono solo un assaggio: “La libertà di espressione ha fatto paurosi balzi indietro, la censura delle voci scomode è una pratica abituale…Un pensiero unico domina nelle grandi università americane, detta legge negli atenei più prestigiosi come Harvard e Yale, Princeton e Berkeley, ed è allineato sull’estrema sinistra. A decidere chi ha diritto di parola e chi no, sono frange radicali dell’antirazzismo di Black Lives Matter, del femminismo di MeToo…”. Un altro mondo è certamente possibile, non è facile cambiare quello attuale ma è possibile. Chissà allora cosa scriveranno un giorno i tanti come Federico Rampini.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org