Maternità è una parola madre, non ha sinonimi, ha invece delle parole figlie: genitorialità, riproduzione, cura. È una parola ampia, legata al venire al mondo. Da questa parola, dal 29 settembre al 14 ottobre 2021 è partita una rassegna, a Bologna, per esplorare alcune possibili declinazioni che la maternità può assumere oggi, perlustrare il campo semantico che abbraccia. Si è chiamata “Matria”, un neologismo della lingua italiana, perché nasce dalla domanda se sia necessario trovare nuove parole e con esse nuovi pensieri per raccontare il nostro oggi relazionale, per rappresentare la creazione in senso fisico e metaforico.  Matria è un luogo d’accoglienza, al di là delle appartenenze nazionali, etniche, religiose, sociali, di genere, contrapposto alla patria come realtà storica, definita dai discrimini dell’identità nazionale e dell’appartenenza nativa a un dato territorio.

Una rassegna, quella bolognese, che è stata zona di incontro dove confrontarsi sul vissuto di ognuno e ognuna attraverso teatro, cinema, arte, letteratura e teoria: luoghi di indagine della complessità umana, per misurarsi con nuovi paradigmi e attraverso lo scambio di esperienze dirette per mantenere la concretezza della vita. “In un mondo che ci vuole piccole, occupare spazio è un atto rivoluzionario”, oppure, “Essere donna non significa per forza essere madre”. O ancora: “L’ascesa delle donne non significa la caduta degli uomini”. Sono alcune delle frasi che campeggiano sui poster di HER name is Revolution, progetto di arte pubblica che fino al 14 ottobre ha portato per le strade di Bologna le fotografie nate dalla collaborazione tra il laboratorio permanente di street art CHEAP e Rebecca Momoli, artista ventunenne che basa la propria ricerca sulla fotografia, la poesia e la scultura.

“Protagonisti degli scatti – scrive Valentina Lonati – sono i corpi di donne, attiviste e artiste durante la gravidanza ma non solo. La loro pelle, il loro ventre, il loro seno, in tutta la loro perfetta imperfezione, compongono la tela bianca su cui sono stati scritti, quasi tatuati, messaggi rivolti a donne e uomini. Un urlo contro l’indifferenza per ricordare che la maternità può significare anche tanto altro, e che una donna può essere gravida di idee, di sorellanza, di rivoluzione”.

La rassegna Matria è stata teatro e cinema, dicevamo. Così, dal 5 al 14 ottobre, è andato in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna lo spettacolo “Lingua Madre” della regista argentina Lola Arias. Un’indagine teatrale sul significato di maternità e paternità sviluppato nell’arco di due anni attraverso le testimonianze di associazioni, studiose e attiviste, ma anche medici, operatrici sociali e avvocate. Una drammaturgia che scava nell’attualità con delicatezza e poesia, facendo emergere le contraddizioni della nostra epoca, la bellezza e le problematiche dell’essere madre, padre, donna, uomo al giorno d’oggi. Una enciclopedia sulla riproduzione nel XXI secolo, dice il sottotitolo proiettato sulla parete che sovrasta la scena e funge anche da schermo per la proiezione di immagini che corredano lo spettacolo – a volte riprese in tempo reale mediante due telecamere.

Al centro della rappresentazione storie di madri migranti, madri transessuali, madri che hanno fatto ricorso alla fecondazione assistita, madri lesbiche, padri gay che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri, madri adolescenti, donne che abortiscono, madri che hanno adottato, donne che non vogliono figli e tanta altra umanità che chiede come reinventare la parola madre. Questa “enciclopedia a teatro” è suddivisa in capitoli, otto in tutto. Si comincia con Educazione Sessuale e si prosegue con Aborto, Desiderio, Parto, Famiglia e così via.
Ognuno di loro racconta a pezzi la sua storia, la rimette in atto, tornando indietro nel tempo, agli anni Settanta delle lotte e della pubblicità che confinava le donne dentro casa a preparare il brodo con il dado di una marca famosa.

Si tratta di un “teatro documentario”, portato in scena da chi, quelle storie, le ha vissute, con il loro carico di emozioni, dolori, paure, forza, ansie, lacrime e gioie. Nei video si vedono i bambini, felici, sorridenti; bambini amati e desiderati. Per chi non conosce, non condivide o pensa che il mondo giri per un verso solo, ci si trova davanti, anche in modo impattante, a delle realtà di vita che sono presenti e vive e forti nella nostra società, nelle nostre città, nei nostri quartieri, nelle nostre famiglie. Realtà che, spesso, devono fare i conti con dei vuoti legislativi enormi o con la incapacità, da parte dello Stato, di riconoscere pieni diritti a tutti e a tutte. Un esempio evidente è l’impossibilità, in Italia, di poter adottare se non sei sposato ed eterosessuale.

Forse, quello che manca, in “Lingua Madre” è un pochino più di pathos, cioè la capacità di suscitare emozioni e una totale partecipazione sul piano estetico e affettivo. La mancanza, in alcuni momenti, di “drammaticità”, tiene fermo lo spettatore a spiegazioni didascaliche che, soprattutto a fine spettacolo, possono allontanare il pubblico dal vero senso di tutta l’opera. Ed è un peccato.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org