A Caltanissetta è andato in scena, ancora una volta, il solito copione. Nelle aule che ospitano il processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio, i giudici hanno raccolto la deposizione, in qualità di testimone, di Nino Di Matteo, magistrato che per molti anni ha fatto parte del pool incaricato delle indagini sull’attentato ai danni del giudice Borsellino e della sua scorta. La testimonianza del magistrato, attualmente membro del Consiglio superiore della magistratura, non ha però apportato alcuna importante novità al processo. Di Matteo ha infatti sostanzialmente ribadito quanto più volte affermato in precedenza: che l’attentato del 19 Luglio 1992 (ed il successivo insabbiamento delle indagini pertinenti) vanta una regia non esclusivamente mafiosa.

Nel corso della propria deposizione, Di Matteo si è soffermato sulla presenza di Bruno Contrada in via d’Amelio nei momenti immediatamente successivi all’attentato e sulle testimonianze di alcuni membri delle forze dell’ordine che rivelerebbero di aver visto lo stesso Contrada allontanarsi dalla scena del crimine con in mano dei documenti. Un fatto molto importante alla luce della misteriosa sparizione dell’agenda rossa in cui il giudice Borsellino era solito annotare tutte le intuizioni o le svolte non ancora ufficiali che prendevano le sue inchieste. Agenda che il giudice aveva con sé quel pomeriggio ma che non è mai stata ritrovata. Di Matteo si è inoltre lungamente soffermato sulla vicenda Scarantino, il falso pentito protagonista del tentativo di insabbiamento di quel filone di indagini, difendendo per lo più non solo il proprio operato, ma anche quello degli altri magistrati del pool.

“Tutta l’indagine – ha dichiarato – è stata portata avanti con grandissima incisività da parte mia e dei colleghi Carmelo Petralia e Anna Maria Palma”. Ha poi ritenuto opportuno “discolparsi” per le chiamate che allora aveva ricevuto proprio da Vincenzo Scarantino. “Mi telefonava -ha detto al riguardo – perché qualcuno gli aveva dato il mio numero di telefono. Seppi – ha poi aggiunto – che glielo aveva dato il procuratore Giovanni Tinebra”. Di Matteo ha infine spiegato che ciò avveniva in “un momento nel quale i collaboratori di giustizia scontavano dei problemi e vedevano nell’ufficio del Procuratore la speranza di una soluzione di quei problemi”. Per quanto gli argomenti trattati nel corso della deposizione, dal ruolo dei servizi segreti all’impegno sincero dei magistrati, siano certamente importanti, è innegabile che sono tutti già stati abbondantemente trattati in precedenza ed è dunque comprensibile la delusione di chi, in quel caldo pomeriggio di luglio, non ha perso solo un giudice valoroso ma anche un padre affettuoso.

Al termine dell’udienza, Fiammetta Borsellino, la minore dei figli del giudice, non ha celato la propria delusione per le difficoltà a fare emergere la verità anche dopo quasi 28 anni da quel terribile giorno.“Non ho constatato da parte di nessuno -ha commentato amareggiata – una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male”. “Io penso – ha concluso Fiammetta – che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati”. Una conclusione a cui si arriva inevitabilmente notando che quel tanto auspicato “fresco profumo di libertà” non riesce proprio a pervadere i tribunali italiani.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org