Sono passate due settimane dall’assassinio, a Malta, della giornalista Daphne Caruana Galizia. Non sono mancate, nel frattempo, le manifestazioni di piazza e le iniziative di giornali e di colleghi di Daphne per chiedere che venga fatta giustizia. La vicenda, tuttavia, ha smesso di essere centrale per la gran parte dei media europei: in particolare, si è già smesso di parlare di Malta e di ciò che rappresenta come Stato membro dell’Unione Europea. Proviamo allora ad approfondire un po’ il contesto nel quale la Caruana Galizia ha agito fino alla sua tragica fine.

Quando nel 2015 il file con i Panama Papers, il fascicolo con oltre 11 milioni di documenti strettamente confidenziali creato dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, finì nelle mani dell’ICIJ (il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi), dentro vi erano nomi di imprenditori, finanzieri, politici maltesi e società operanti a Malta. Anche i cosiddetti “Malta Files” hanno svelato gli interessi illeciti che inquinano l’isola, paradiso fiscale nel cuore d’Europa ma anche centro di traffici criminali di ogni sorta: riciclaggio, traffico di armi e droga, contrabbando di petrolio. Un paese dunque molto diverso da quello che si immaginava.

Ma cosa è, dunque, Malta? In termini economici, quanto costa l’isola-Stato mediterranea agli altri paesi dell’Unione? E perché l’Unione consente che al suo interno vi sia un luogo franco nel quale transitano i proventi di attività illecite e dell’evasione fiscale prodotta in altri paesi? Andiamo con ordine.

Malta, innanzitutto, è una delle nazioni in cui la tassazione effettiva scende sotto il 10%, grazie alle agevolazioni fiscali e ai numerosi incentivi garantiti alle imprese. Come ci ha detto Elly Schlein, eurodeputata di Possibile, “questo piccolo paese con 450 mila abitanti è riuscito a privare gli stati europei di ben 8,2 miliardi”. Una cifra pazzesca. Un paradiso per quelle imprese che, aprendo una sede a Malta, riescono a eludere il fisco del loro paese di appartenenza, nonché a riciclare denaro da reinvestire in attività non lecite. “I canali sono diversi – spiega il prof. Giampaolo Arachi, docente di Scienza delle Finanze all’Università del Salento e membro del centro di ricerche Dondena, presso l’Università Bocconi di Milano -. Alcuni sono molto semplici, nel senso che i fondi a volte vengono trasferiti ma non dichiarati”.

“Negli ultimi anni –  continua Arachi – sono stati fatti passi avanti sulla tracciabilità di questi fondi e sullo scambio di informazioni tra paesi, ma negli anni passati il trasferimento di fondi nei paradisi fiscali poteva avvenire più facilmente, senza lasciare tracce poi recuperabili dalle autorità fiscali dei paesi di provenienza. In altri casi, il meccanismo è ancora più semplice perché si tratta di transazioni all’interno di gruppi societari, sotto forma di pagamento effettuato dalla società del paese ad alta aliquota per un servizio fornito dalla società che risiede nel paradiso fiscale”.

Come hanno dimostrato i Panama Papers e anche alcune inchieste della magistratura italiana, sono tantissime le imprese italiane che hanno aperto delle fiduciarie con sede legale a Malta. Società fittizie, senza alcuna sede operativa, nate esclusivamente per frodare il fisco e riciclare denaro. Purtroppo, spesso i magistrati italiani si sono dovuti scontrare con le difficoltà legate alla scarsa volontà di collaborare da parte delle autorità maltesi, soprattutto quando sono coinvolti loro cittadini. Un atteggiamento non raro in contesti simili. “I paradisi fiscali – afferma il prof. Arachi – sono stati sempre poco inclini a collaborare perché traggono vantaggio dalla loro opacità. E nonostante gli accordi sottoscritti, come ad esempio nel caso del decreto americano Fatca sullo scambio di informazioni fiscali, spesso rimane la resistenza di questi paesi a fornire tali informazioni”.

Qualche miglioramento, tuttavia, nella lotta internazionale all’evasione e all’elusione fiscale, c’è stato, ma la strada è ancora ardua, anche per i tanti interessi in gioco. “In questi anni – ci dice Elly Schlein – su questo tema l’Europa ha fatto molti passi in avanti, anche grazie a scandali come quello del Lussemburgo o dei Panama Papers che ci hanno dimostrato che questa battaglia andrebbe affrontata in modo europeo e globale, perché la questione non riguarda solo Malta o Lussemburgo o l’Irlanda”.

“Il punto è – continua l’europarlamentare – che se facciamo passi avanti in una sola area del mondo, come l’Europa, faremo in modo che altri paesi creino incentivi immediati per diventare paradisi fiscali e attirare lì le imprese. In quasi tutte le nazioni europee vi sono delle pratiche fiscali che mirano a creare dei vantaggi, che come unico effetto hanno quello di creare una competizione fiscale sfrenata tra stati membri che appartengono alla stessa Unione. Un vero paradosso fiscale. A forza di competere in modo selvaggio si è arrivati in alcuni casi a garantire aliquote bassissime a determinate società. Si pensi al caso irlandese con la Apple”.

Di certo, quello che stupisce è che nessuna istituzione europea fino ad ora ha intrapreso azioni dure, anche sanzionatorie, nei confronti di Malta e delle sue autorità, che peraltro fanno pienamente parte dell’UE. Al di là di ogni riflessione, questo è il punto dolente che, da un lato, mostra la debolezza dell’Unione e, dall’altro, fa supporre un fortissimo coagulo di interessi diffusi fra i vari paesi. “L’atteggiamento delle varie nazioni nei confronti dei paradisi fiscali – ci spiega il prof. Arachi – è sempre stato ambivalente. I grandi paesi industriali in alcuni casi vengono danneggiati, ad esempio quando questi paradisi fiscali consentono di eludere la tassazione. D’altra parte, però, a volte, questi stessi paesi vedono i paradisi fiscali come uno strumento per tutelare in qualche modo la competitività delle proprie imprese quando queste vanno ad operare all’estero”.

Quello che serve, dunque, è un’azione globale condivisa e votata a una maggiore trasparenza. Alcune misure, in tal senso, sono state adottate, soprattutto su spinta degli organismi internazionali: “Il G20 – ricorda l’on. Schlein – qualche anno fa ha incaricato l’OCSE di fare un piano anti BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), vale a dire 15 misure che obbligano ad esempio a un pieno scambio automatico di informazioni tra le autorità fiscali. Se ci si pensa, però, è assurdo che l’UE abbia dovuto aspettare degli interventi internazionali per realizzare una cooperazione tra paesi partner della stessa Unione”.

Un altro punto fondamentale per scoraggiare l’evasione fiscale e gli incentivi che la favoriscono, sarebbe poi la realizzazione di una armonizzazione fiscale che impedisca la coesistenza di 28 sistemi fiscali diversi: “Quello che accade – racconta l’eurodeputata di Possibile – è che, ad esempio, le multinazionali si siedono al tavolo con uno dei governi, che a volte è Lussemburgo, altre volte Malta o l’Irlanda, ma anche altri, compresa l’Italia, e pattuiscono delle condizioni agevolate, che permettono loro di tassare i profitti dove le aliquote sono basse. Queste multinazionali riescono a fare profit shifting molto articolati, hanno uffici legali pagati profumatamente per fare questo, cioè approfittare delle differenze dei diversi sistemi fiscali europei”.

La trasparenza è un obbligo, una priorità anche per quel che riguarda il riciclaggio di denaro che poi finisce per finanziare attività criminali di ogni sorta: “Due anni fa – conclude l’on. Schlein – abbiamo votato la quarta direttiva antiriciclaggio, che risponde a una esigenza di maggiore trasparenza, perché troppo spesso nelle società che operano nei paradisi fiscali transitano i proventi di riciclaggio, traffico di armi, di droga, contrabbando di petrolio, insomma tutte quelle questioni che erano al centro delle indagini di Daphne Caruana Galizia e di altri coraggiosi giornalisti che abbiamo l’obbligo di difendere e non lasciare soli”.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org