“Diserteremo tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità: nonostante tutte queste celebrazioni si è fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio”. Sono queste le parole di Fiammetta, terzogenita del magistrato Paolo Borsellino, barbaramente assassinato il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio, insieme agli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Walter Eddie Cosina. Sulla stessa scia di Fiammetta, anche il comunicato del fratello del giudice Borsellino, Salvatore: “Ora chiediamo noi il silenzio. Alle passerelle e alla politica. Perché invece di fare tesoro di ciò che in questi trent’anni è successo, la lotta alla mafia non fa più parte di nessun programma”.

Mentre in tutta Italia vi sono state varie manifestazioni per ricordare il trentesimo anniversario della strage, la famiglia ha scelto il silenzio; un silenzio assordante, un silenzio di protesta, un silenzio di indignazione verso un Stato, di cui Paolo Borsellino è stato fedelissimo servitore, che cerca, attraverso alcuni componenti di esso, di nascondere la verità e che, probabilmente, come è stato ben ricostruito dall’ultima inchiesta giornalistica della trasmissione televisiva Report, andata in onda il 18 luglio 2022, è stato complice e connivente di un sistema di potere che ha visto viaggiare insieme la mafia, la destra eversiva, la massoneria, i servizi segreti, il potere economico e militare di questo Paese.

Il 19 luglio 1992, alle ore 16:58, una Fiat 126 rubata contenente circa 90 chilogrammi di Semtex-H (esplosivo di tipo militare, brevettato nei Paesi dell’Europa dell’Est) telecomandati a distanza (probabilmente da dietro un muretto in fondo alla strada o da un condominio in costruzione nelle vicinanze), viene fatta esplodere in via Mariano D’Amelio al civico 21 a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitava la madre del magistrato. Lo scenario descritto dal personale della locale Squadra Mobile giunto sul posto parlò di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati». Tra questi corpi, insieme a quello martoriato di Paolo Borsellino, ci sono quelli degli agenti di scorta, tra cui Emanuela Loi, che aveva solo 24 anni. Una giovane donna poliziotto in borghese nel dispositivo di scorta di una magistrato antimafia.

Una donna coraggiosa, che in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio, scelse di scortare il giudice Borsellino, quando tutti in quei giorni fuggivano, eludevano, trovavano scuse per non scegliere da che parte stare. Quando in molti, in quei giorni terribili, sia nel mondo politico nazionale che all’interno della magistratura, cercavano di depistare, trattavano con cosa nostra, cercavano di bloccare le indagini di Borsellino lasciandolo solo e condannandolo ad una morte certa. Tre processi, svariate indagini sui mandanti occulti e sulla scomparsa dell’agenda rossa, su cui Borsellino aveva segnato appunti sulla strage di Capaci dove morì Giovanni Falcone, non hanno ancora fatto luce su quanto accaduto. Altri processi, tra cui quello sulla “trattativa tra Stato e mafia”, un altro processo ancora contro Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo in contumacia, e quello sul presunto depistaggio alle indagini, hanno creato una confusione tale da rendere ancora più difficile la scoperta della verità.

Come per la strage di Capaci, anche per quella di via D’Amelio, tutti ricordiamo dove fossimo quando abbiamo ricevuto la notizia. Personalmente, ricordo perfettamente cosa stessi facendo quel giorno, a quell’ora. Rientravo con i miei genitori e mio fratello dal mare. Una giornata assolata, calda. Davanti alla nostra auto, quella del fratello di mio padre che si accosta mettendo le quattro frecce. Eravamo andati al mare insieme. Ci accostiamo anche noi. Si avvicina con uno sguardo atterrito e ci comunica che avevano ucciso il giudice Borsellino. Un silenzio assordante ci avvolse. Nessuno pronunciò una parola, nessuno. Ricordo solo le lacrime che parlarono per noi mentre venivamo assaliti da un senso di desolazione inimmaginabile.

Fu Antonino Caponnetto che diede la voce e la parola a quelle lacrime silenziose, quando, uscendo dall’obitorio, scosso e addoloratissimo disse: “È finito tutto…”. Una frase di cui poi in futuro si pentì, perché era dettata dalla emotività di quel tragico momento, ma non rispecchiava lo spirito combattente di quel bravissimo magistrato. Per tutti noi, però, in quel momento fu proprio questa la sensazione: la fine di ogni speranza, la morte della libertà e della giustizia, un dolore profondo e lancinante. Agnese Borsellino, moglie del magistrato, in una delle ultime lettere dedicate al marito, nonostante tutto, riaccese la speranza, incitando i giovani, a cui Paolo credeva profondamente, ad andare avanti: “Dicevi: ‘Siete il nostro futuro, dovete utilizzare i talenti che possedete, non arrendetevi di fronte alle difficoltà’. Sento ancora la tua voce con queste espressioni che trasmettono coraggio, gioia di vivere, ottimismo. Hai posseduto la volontà di dare sempre il meglio di te stesso. Con questi ricordi tutti ti diciamo ‘grazie Paolo’”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org