Equilibrare i diritti non è sempre cosa facile, non c’è un’efficace unità di misura, una tabella che indichi, inequivocabilmente, quale diritto debba prevalere su un altro. Eppure, nel delicato tentativo di servire la giustizia senza pregiudicare eccessivamente i diritti individuali, non si dovrebbero mai perdere di vista i grandi insegnamenti forniti dalla Storia. In questo periodo la Corte costituzionale è chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità dell’ergastolo ostativo, il cosiddetto “fine pena mai”, ovvero l’impossibilità, per i condannati per crimini gravi quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo ed eversione, che abbiano deciso di non collaborare con la giustizia, di avvalersi come gli altri detenuti di alcuni benefici penitenziari tra cui la libertà vigilata, decorsi 26 anni di reclusione. Questa particolare misura cautelare fu introdotta nel nostro ordinamento nei primissimi anni ‘90, con una serie di normative emergenziali studiate per porre un freno all’escalation di violenza delle mafie su tutto il territorio nazionale.

Insieme ad altri inasprimenti di pena introdotti in quello stesso periodo nel codice di procedura penale, costituisce il cosiddetto “carcere duro”, il regime penitenziario particolarmente rigido studiato per criminali considerati notevolmente pericolosi. Il carcere duro fu l’unico deterrente che i magistrati riuscirono allora ad elaborare per questa categoria di criminali particolarmente “ostinati” Un deterrente valido, temuto dai boss, tant’è che l’abolizione del carcere duro era proprio una delle condizioni contenute nel famigerato papello elaborato da Totò Riina per interrompere la stagione stragista e la feroce violenza che insanguinava l’Italia dei primissimi anni ‘90. Da qualche tempo, l’ergastolo ostativo è finito nell’occhio del ciclone. La prima ad esprimere dubbi sulla sua legittimità è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2019, lo ha giudicato in contrasto con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti fondamentali dell’uomo che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, poiché negherebbe al condannato la speranza di un recupero sociale.

Tale sentenza, con il conseguente invito rivolto all’Italia perché riformasse le relative norme, ha catapultato l’ergastolo ostativo al centro delle polemiche. Pochi mesi dopo, la Corte Costituzionale italiana si era espressa sull’incostituzionalità del divieto per i boss di accedere ai permessi premio. Al giorno d’oggi, un nuovo ricorso ha interpellato la Corte Costituzionale ad esprimersi sul divieto di libertà vigilata per un boss che si rifiuta di collaborare. L’avvocato ricorrente, Giovanna Beatrice Araniti (figlia di un boss della ‘ndrangheta attualmente nelle patrie galere), nell’interpellare la Corte, ha sottolineato il “diritto al silenzio” del proprio assistito. “Il nostro ordinamento – ha dichiarato la Araniti – garantisce all’imputato la possibilità di non autoaccusarsi”. “Quindi – ha proseguito – un soggetto non può essere costretto a collaborare a tutti i costi per uscire dal carcere”.

Un ricorso che ha attirato l’attenzione da più parti. Se, da un lato, lo Stato si è costituito in giudizio a difesa dell’ergastolo ostativo, è facile immaginare che siano in molti, dietro le sbarre, ad attendere di conoscere la decisione della Consulta. Tra questi, ci sono anche nomi “eccellenti” come quelli dei fratelli Graviano e di Nitto Santapaola, che sta comunque tentando di ottenere la sospensione del 41 bis in ragione delle proprie cagionevoli condizioni di salute. Non si sono fatte attendere poi le reazioni di sconcerto e rabbia di alcuni parenti di vittime di mafia. “Consentire a un mafioso ergastolano, che non abbia mai intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia, di godere di permessi premio – ha dichiarato Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni – sarebbe un clamoroso arretramento nella lotta a cosa nostra”.

“Trent’anni dopo averli uccisi – ha dichiarato Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo -, con l’abolizione dell’ergastolo ostativo stanno per dare il colpo di grazia a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone, stanno per pagare l’ultima e più pesante cambiale sottoscritta nel corso della trattativa, quella che sancisce la resa totale dello Stato di Diritto”. “È la resa totale – ha continuato il fratello del giudice – lo Stato ha ceduto completamente il passo allo Stato-Mafia, adesso la nostra lotta dovrà diventare una vera lotta di resistenza”. “Noi – ha poi concluso il Borsellino – non ci arrenderemo mai”. Al di là delle questioni di procedura, ci sentiamo di dire che per quanto il “diritto al silenzio” possa avere una propria valenza, forse chi lo ha considerato valevole di tutela ha dimenticato che i criminali a cui si applica l’ergastolo ostativo hanno leso diritti molto più importanti, compreso quello alla vita, e se non intendono redimersi o collaborare, stiano anche zitti, ma non pretendano permessi premio o libertà vigilate o sconti di pena non meritati, soprattutto se non è venuta meno la loro pericolosità sociale. La rieducazione deve essere un obiettivo, ma devono volerla entrambe le parti interessate.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org