Che il destino della maggioranza di governo fosse traballante, lo si sapeva già quando si è scelto di darle vita. Forze in apparenza molto diverse (anche se su certi temi paradossalmente identiche), unite attorno all’ennesimo uomo della Provvidenza, la sola vitamina capace di sostenere il corpo debilitato e fragile della politica italiana, sempre più nel caos all’uscita dal periodo dell’emergenza pandemica. Nel vuoto politico, Mario Draghi è presto diventato la sola figura ritenuta credibile dall’Europa, dai grandi gruppi economici e finanziari e dai mercati, l’unica personalità in grado di assicurare un governo responsabile e maturo, fondamentale per tirare l’Italia fuori dalla palude della crisi economica post Covid e di rilanciarla gestendo al meglio i tanti soldi previsti dal PNRR. In un attimo, il nostro Paese ha trovato il suo nuovo salvatore, l’uomo forte che piace tanto a un popolo che è regredito lentamente dall’idea di una democrazia vivace fondata sul confronto maturo e su partiti con una precisa visione del mondo a quella di una democrazia arenata e fondata sui leader.

Figure alle quali affidare ogni speranza immaginando improbabili poteri divinatori capaci di porre soluzioni ai problemi atavici e incancreniti di un sistema politico ed economico decadente. Naturalmente, sono speranze vane. Perché Draghi è solo un’altra espressione di una vecchia aristocrazia finanziaria che, al di là della sua statura o credibilità internazionale, poco può fare per sanare le ferite profonde che bruciano nel corpo del Paese. Non serve essere onorati da mezza Europa se poi le ricette che proponi per la tua nazione sono quelle già viste e bocciate dalla storia. La via del governo, Draghi l’ha percorsa senza riuscire a mettere in atto politiche di ampio respiro economico e sociale. A sua discolpa, possiamo riconoscere certamente la difficoltà della guerra o l’estraneità del premier agli schieramenti politici o a un partito, ma questo non basta a giustificare la sua lontananza, la sua freddezza verso quelle che sono i reali bisogni dell’Italia.

Draghi, ad esempio, non ha impresso alcuna svolta positiva, né sulla transizione energetica (la sola strada per iniziare a sciogliere il cappio della dipendenza estera), né sui migranti e sui diritti umani (brucia ancora il suo endorsement per la guardia costiera libica), né tantomeno sulla crisi economica (i rincari strozzano cittadini e famiglie e non si scorgono all’orizzonte misure sufficienti a tamponarne gli effetti). Si potrebbe continuare ancora su tanti temi, inclusa l’assenza di una visione sul tema del lavoro, sulla cultura, sulla tutela dell’ambiente. Per non parlare poi della scelta di armare l’Ucraina e di inserirsi con affrettata decisione in un conflitto dagli equilibri delicati, trasformando in nemico numero uno chiunque cercasse di suggerire la via, magari non della equidistanza, ma di certo della diplomazia.

In tutto questo, ha avuto il sostegno, potremmo dire quasi la coccola costante, dei mass media nazionali, dei grossi gruppi editoriali, di buona parte dei partiti e dei poteri più forti e solidi di questo Paese. Ecco perché, quando Giuseppe Conte ha avuto l’ardire di ricordare che la stabilità non può essere un ricatto per schiacciare qualsiasi principio o valore, l’ondata di rabbia verso il ribelle e l’inversa esplosione di incondizionata fedeltà per il premier hanno raggiunto picchi altissimi, quasi imbarazzanti. Lo strappo di Conte sicuramente ha sfrondato ulteriormente il già rinsecchito albero dei 5 stelle, facendo emergere le paure e il nervosismo di chi ha dimenticato la strada e la lotta e oggi trema all’idea di tornare a misurarsi con la politica fuori dalle stanze di comando. Ma cosa ancora più importante, la presa di posizione dell’ex premier ha spezzato il meccanismo che nutriva la maggioranza, spesso polemizzante nella facciata, ma poi silenziosamente infilata nel taschino della giacca di Draghi e delle sue visioni politiche.

Già in passato, quando arrivava qualche voce discordante, la minaccia delle dimissioni aveva avuto il buon risultato di rafforzare sempre di più le posizioni del premier. Questa volta, è ancora peggio. Perché l’idea di perdere Draghi e di tornare al voto è ritenuta terrificante. La stabilità, la crisi, il PNRR, i soldi, l’Europa, la guerra. Tante parole fanno da contorno al mega partito a difesa dell’uomo della Provvidenza. Così, contro il ribelle si è scatenata la guerra, con l’aiuto di un sistema mediatico palesemente schierato. Persino i sindaci sono scesi in campo, con una petizione e oltre 1000 firme per chiedere che Draghi non si dimettesse e continuasse a governare.

In tutto questo coro di amore per il premier, nessuno però che spieghi cosa abbia fatto questo governo per meritare di proseguire. Soprattutto nessuno che risponda ai punti e alle richieste di Conte. La transizione energetica, il salario minimo, così come il no alle armi, temi e valori che sono fondamentali per Conte e per coloro che egli rappresenta. E che dovrebbero esserlo anche per forze che un tempo questi temi e questi valori li annoveravano tra i propri punti programmatici e tra le proprie visioni del Paese. Se invece delle rinnovabili continui a pensare al carbone, se tiri fuori nuovamente trivellazioni e nucleare, se pensi che la questione rifiuti si risolva con la vecchia e inquinante strategia dei termovalorizzatori, se non hai prodotto una sola misura per tutelare chi si trova fuori dal mercato del lavoro, se decidi in maniera unilaterale di armare una guerra, allora poi non puoi stupirti se qualcuno non approva le tue idee e non è disposto a svendere le sue pur di tenere in vita un governo ed evitare quel meccanismo democratico che è il voto e che a troppi fa inspiegabilmente  paura.

La stabilità non può essere un obbligo, quando calpesta i valori. C’è un passaggio interessante nel documento con le richieste di Conte a Draghi: “Già a fine marzo scorso, quando la incontrai a Palazzo Chigi per esprimerLe la contrarietà della nostra Comunità ad abbracciare la corsa al riarmo, motivai questa scelta anche con l’urgenza di concentrare gli interventi e le risorse a sostegno di famiglie e imprese, alle prese con mille difficoltà dovute al caro-bollette, all’incremento del costo del carburante, all’esplosione inflazionistica, alla scarsità di materie prime. Da allora sono passati oltre tre mesi e la condizione di famiglie e imprese si è aggravata”. E ancora: “Le abbiamo più volte rappresentato, invano, come non sia accettabile che il Consiglio dei Ministri sia relegato al ruolo di mero consesso certificatore di decisioni già prese, con provvedimenti normativi anche molto complessi che vengono portati direttamente in Consiglio o, quando va bene, con un anticipo minimo, comunque inidoneo a consentirne un’analisi adeguata”.

Si può non essere d’accordo con le posizioni altrui, ma se condividi una maggioranza, a certe sollecitazioni devi rispondere e farlo nel merito. Non puoi limitarti a comandare e, in caso di rimostranze e disaccordi, puntare i piedi e minacciare dimissioni. Anche perché alla fine non sono state quelle domande a determinare la caduta del governo, ma la forzatura successiva del solito Salvini, in tandem con Berlusconi, una forzatura nata anche dalla generale e precedente indisponibilità del premier a rispondere, a confrontarsi. La democrazia, d’altra parte, è fatta di confronto e di diversità di posizioni. E se sei un premier, anche se di una maggioranza traballante e debole, devi agire secondo le dinamiche della democrazia. Anche se ti chiami Mario Draghi e hai mille sindaci e parecchi direttori che si inginocchiano al tuo cospetto.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org