“Io penso che le persone siano stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà pazienza”. (Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata). Due giorni dopo questa affermazione scioccante, Domenico Guzzini si è dimesso dal suo incarico. Non importa sapere se le sue siano dimissioni volontarie o suggerite dai vertici dell’Associazione, le sue parole restano e pesano come un macigno e le scuse, successive all’affermazione, non riescono a cancellarne o sminuirne la portata: quando si fa un’affermazione del genere significa che si pensa davvero che così debba essere. Davvero inaccettabile la sua giustificazione: “Sinceramente chiedo scusa a tutti e in particolare alle famiglie toccate dal dramma del Covid, per la frase che ho pronunciato ieri nel corso del Forum Made For Italy. Ho sbagliato nei contenuti e nei modi. Parlavo della vita aziendale e delle prospettive del lavoro e invece, preso dalla discussione, ho fatto un’affermazione sbagliata, che non raffigura il mio pensiero né tantomeno quello dell’Associazione che rappresento”.

Diventa difficile credere che un manager abituato a parlare nei consigli di amministrazione di grandi aziende possa lasciarsi scappare una frase simile per ingenuità o per leggerezza, o perché preso dalla foga della discussione. Questi mesi di pandemia hanno raccontato nei dettagli le resistenze che Confindustria ha messo in atto per mantenere aperte le proprie fabbriche per garantire la continuità produttiva. Il DPCM firmato nel mese di marzo dal presidente del Consiglio prevedeva lo stop alle attività produttive non essenziali, e da quel giorno ha avuto inizio l’imbarazzante balletto degli industriali attorno ai “codici Ateco” che stabilivano quali attività dovevano essere fermate e quali potevano continuare. In quei giorni si parlava molto della “filiera” produttiva, ma se non potevano esserci dubbi sull’intera filiera alimentare e su quella dei dispositivi medico-sanitari e della farmaceutica, tutt’altro discorso si sviluppava anche attorno ad altri settori. Com’è andata lo sappiamo, lo abbiamo visto: le attività legate ad aerospazio e difesa, per fare un esempio, hanno continuato a lavorare e a produrre come se nulla stesse succedendo nel Paese.

Nelle fabbriche della Val Seriana si è continuato a lavorare a pieno regime per settimane, autocertificando di svolgere attività riconducibili a filiere essenziali, nonostante il parere contrario di medici e scienziati. Poi, un giorno, anche le ambulanze hanno smesso di urlare, e a Bergamo hanno lasciato il posto ai camion militari che, in fila indiana, hanno portato via nomi e storie di umanità. Le pressioni e le ingerenze delle associazioni industriali sono state quotidiane e pesanti. Rileggere ora alcune dichiarazioni mette i brividi. Stefano Scaglia (Confindustria Bergamo): “Le nostre imprese non sono state toccate e andranno avanti, come sempre”; Marco Bonometti (presidente di Confindustria Lombardia): “Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse, non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati”.

Nelle settimane in cui il bilancio dei morti saliva come un fiume in piena e il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, affermava che “mandare avanti la produzione è un gravissimo errore, è una follia vedere ancora capannoni e cantieri pieni di gente”, Confindustria Bergamo divulgava un tremendo spot, “Bergamo is running”, il video con cui gli industriali della Val Seriana rassicuravano le aziende estere e minimizzavano un’emergenza che cominciava a uccidere. Confindustria, tutta Confindustria, ha già dimenticato. Attorno alla mancata dichiarazione della zona rossa in Val Seriana si sono versate lacrime e fiumi di parole, ora la parola spetta alla magistratura.

Ma il dottor Domenico Guzzini non si tormenti più del necessario, è in buona compagnia. Lui è solo uno dei tanti e l’ultimo in ordine di tempo. Chissà se il dottor Guzzini ricorda che nella Torino occupata dai nazisti, sotto i fucili degli uomini del generale delle SS Zimmermann, i lavoratori della Fiat diedero vita, nel dicembre 1944, ad una pagina straordinaria della storia del movimento operaio in Italia. Guzzini avrà sicuramente saputo, dai libri di storia, che negli anni precedenti il regime fascista rappresentò per la Fiat un periodo di grandi guadagni e favori: la mitica “Balilla” non sarà soggetta alla tassa di circolazione per circa un anno; l’autostrada Torino-Milano, chiesta dalla Fiat, sarà costruita prosciugando le casse dello Stato; i dazi su certi prodotti esteri, le automobili, arrivano a valori stratosferici. Eppure, Fiat non rinuncia a licenziare: “Alla fine del 1930 i salari di tutti gli operai italiani vengono ridotti d’autorità dell’8 per cento. E già da alcuni mesi Fiat aveva proceduto a massicci licenziamenti” (Valerio Castronovo, “Giovanni Agnelli”, Editore Einaudi).

Altre città seguirono in quei giorni l’esempio di Torino. I lavoratori delle fabbriche pagarono un prezzo altissimo: arrestati, fucilati, deportati in Germania, tornarono in pochi ma salvarono le fabbriche, le città e il Paese. Da quelle fabbriche salvate l’Italia seppe rialzare la testa. Da oltre 40 anni si parla in continuazione di: costo del lavoro, produttività, competitività e assenteismo, di come negli altri paesi i lavoratori siano più bravi, più seri, facciano meno ore di sciopero etc. etc. Certo, parliamone pure. Però possiamo parlare, per una volta almeno, anche di scelte industriali devastanti, di dirigenti e imprenditori incapaci, collusi con la parte più sporca della politica e del malaffare, corrotti e magari anche un po’ disonesti?

Qualcuno è già morto nelle fabbriche di questo Paese, dottor Guzzini, il prezzo è già alto e pagato da tempo: dal Petrolchimico di Marghera alla Thyssen di Torino, alle acciaierie di Taranto, per passare all’amianto di mille fabbriche di un territorio devastato. Che ruolo hanno avuto, ed hanno ancora, le banche e i grandi gruppi finanziari nelle scelte strategiche di questo Paese? Ci sono sicuramente molte cose da ri-costruire in questo Paese, anche fra i lavoratori. C’è un Paese inginocchiato, dove al dolore per il presente si aggiunge la paura di un futuro difficile da immaginare. Serviranno unità e solidarietà sociale, servirà uno sguardo diverso verso le classi più segnate dalla pandemia e dalla storia. E quelle ferite saranno quasi impossibili da rimarginare, ma questo Paese ha già saputo ri-costruirsi una volta e ci proverà anche adesso, nonostante l’approccio cinico e non condivisibile che in certuni casi si fa scempio del dolore per i ben 65mila morti di oggi e chissà quanti di domani.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org