Quella generazione del secolo scorso, ragazze e ragazzi che hanno attraversato ogni strada necessaria per inseguire un sogno o forse un’utopia, ci scrive una lettera che voglio leggere fino in fondo. Niente più del sogno e dell’utopia scalda il cuore e mette in cammino le persone. Il saluto a Rossana Rossanda è solo l’ultimo, in ordine di tempo, a una donna che quella generazione l’ha colorata di passione e di intelligenza. Non molto tempo fa disse: “Mi dispiacerà morire per i libri che non avrò letto e per i luoghi che non avrò visitato…”, e in queste poche parole c’è tutta la bellezza di quella voglia di conoscere e di non accontentarsi mai, come un bicchiere che va riempito sempre. Forse la vita è proprio questo, un bicchiere che dobbiamo riempire sempre: di emozioni, di speranze, di idee e anche della dose necessaria di sogni e utopie.

Il suo libro, “La ragazza del secolo scorso”, si apre e si chiude con due frasi che a me sembrano bellissime. La prima, testuale, recita: “Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica.”. Il comunismo, la politica…molti di noi non li hanno trovati in casa, ma li abbiamo cercati e qualche volta sono loro che ci hanno chiamato e trovati.

La seconda, che appunto chiude il libro, dovrebbe diventare un insegnamento per tanti di noi: “Noi, Manifesto, non cademmo nel nulla come succedeva ai più fra quelli che avevano lasciato il PCI. Cademmo nel pieno della crisi dell’Università e delle Lotte Operaie. Speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un’altra storia. ”.

“Non funzionò. Ma questa è un’altra storia.”. Tante volte le cose non funzionano come si vorrebbe, nella vita troppe volte è così, e non esiste mai un motivo solo quando questo non accade. Credo però che l’idea, o l’utopia, del Manifesto sia qualcosa che merita il rispetto e il grazie di intere generazioni. Ci metto anche la mia fra quelle generazioni, troppo giovani nel ‘68 ma cresciuti in fretta per attraversare la stagione successiva. Quella stagione ha regalato tanto e si è ripresa forse anche di più, ma andava vissuta e attraversata in tutte le sue emozioni e in tutta la sua rabbia. Per crescere in fretta devi innamorarti di qualcosa che ti faccia sentire vivo. Poi arrivano le delusioni e anche le sconfitte, individuali e collettive, ma nessun rimpianto. Con il tempo si impara che nella vita un rimpianto è molto più doloroso di un rimorso, e innamorarsi di qualcosa o di qualcuno non sarà mai un rimpianto.

Genova, 19 settembre 2020. Giordano Bruschi, nome di battaglia “Giotto”, è un altro ragazzo del secolo scorso. Il suo Novecento non è ancora finito, la sua storia continua ancora, ricca di umanità sparsa e di progetti. Novantacinque anni ma ne mancano ancora cinque per arrivare a cento, e in un giardino fra ulivi e orti, coniglie e api, insieme alla sua gente ho salutato il suo compleanno e la presentazione del suo ultimo libro: “Il mio Novecento”. La sua è una storia che parte da lontano, in quella città con quella faccia un po’ così, solo in apparenza selvatica ma che si impara ad amare un giorno alla volta: Genova. Nella Genova operaia del secolo scorso “Giotto” comincia la sua storia: partigiano, sindacalista, comunista. Le lotte e le battaglie continuano dopo la guerra: c’è lo storico sciopero della San Giorgio, a Sestri. Ottantatré giorni di autogestione dal momento in cui l’intera dirigenza era scappata via dopo aver proclamato la serrata. Lo sciopero inizia nel febbraio del 1950, la direzione abbandona la fabbrica e la proprietà assicura lo stipendio solo a chi non si presenta in fabbrica.

La risposta è diventata storia: migliaia di lavoratori decidono di continuare a lavorare e la produzione non si ferma, la fabbrica va avanti e Sestri si stringe intorno ai suoi operai. Giordano Bruschi c’è, è in prima fila. Giotto non scappa come fanno i padroni, ma non potrà vivere in prima persona la fine della lunga battaglia sindacale di cui è stato protagonista perché quando arriva la vittoria dei lavoratori lui è in carcere, a Livorno. Due mesi di carcere per un’accusa infondata e infame, prima di essere prosciolto e restituito alla libertà. L’autogestione della San Giorgio passerà alla storia del Movimento Operaio, e la storia di “Giotto” continua: alla fine degli anni ‘50 comincia un altro capitolo che durerà diciassette anni, accanto ai lavoratori del mare. Fabbrica, cantieri e marittimi… Genova e Giordano Bruschi.

È stato bello essere in quel giardino fra ulivi e orti, coniglie e api, domenica 19 settembre 2020. Lo considero un privilegio, come considero un privilegio conoscere questo gigante di 95 anni che progetta il futuro per i prossimi cinque anni. Penso a Rossana, a “Giotto”, ma accanto a loro, nella fotografia del ‘900, ci sono altri nomi e altre storie simili. Alcuni si sono fermati perché solo il tempo poteva vincerli, ma il tempo non li ha sconfitti. I ragazzi del ‘900 ci regalano il loro passato che può ancora essere un futuro se noi sapremo leggere quel libro, scritto da loro con le loro scelte, la loro voglia di credere che un mondo diverso è possibile. Quel Novecento continua con altre sfide che vanno raccolte, e lasciare questo compito ai ragazzi di oggi senza essere accanto a loro, girarci dall’altra parte fingendo di non vedere la loro voglia di essere protagonisti di un cambiamento che è sempre più necessario, significa non aver capito quel libro.

L’incontro fra le generazioni, in ogni stagione, è fondamentale. Non desiderarlo diventerebbe solo l’ultimo rimpianto e la più grande delle sconfitte. Sarebbe un’offesa per Rossana Rossanda, Giotto e per chi, come loro, non ha mai smesso di lottare per un’idea. Non è mai facile guardare in faccia il mondo, non è mai facile curare una ferita e accettare una sconfitta, ma quel bicchiere che non può mai essere vuoto va riempito sempre. Riempirlo costa fatica e spesso diventa un calice amaro da bere, è facile cadere e rialzarsi tante volte sembra impossibile. Allora bisogna costringersi a guardare avanti perché indietro ci siamo già stati, guardarsi indietro serve solo per vedere e capire da dove siamo partiti, dove e quando abbiamo vinto e perso. Uno sguardo attento, per poi provare a guardare avanti cercando ancora l’idea e forse l’utopia, il sogno, senza paura di innamorarsi ancora, di qualcosa e di qualcuno. Forse non funzionerà, ma questa è un’altra storia.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org