Per molti italiani esiste un modo di scaricare la tensione, di sfogarsi dinnanzi alle delusioni, al malcontento, alle disuguaglianze, alle tasse inique e, perfino, alle regole, anche quelle condivise. C’è un canale non violento dentro cui si lascia scorrere tutta quella frustrazione che si attacca al fegato come una caramella gommosa al tuo palato. Chi di noi, infatti, non ha mai santificato, almeno in privato, l’insulto liberatorio e generico al governo o a un singolo ministro o al leader di un partito o anche solo a un vigile urbano un po’ troppo fiscale? E quante volte lo abbiamo fatto con assoluta superficialità, solo per il bisogno di sfogare verbalmente un po’ di nervosismo? In periodo di crisi, poi, qualunque evento non piacevole, anche l’applicazione di una norma ovvia e nota, è in grado di farci scattare l’impulso di maledire qualcosa, con preferenza per il nostro amato Paese.

Da oggi, però, dovremo fare attenzione: i tempi sono cambiati. In epoca di spending review, è necessario dare un taglio anche agli insulti e agli sfoghi, a meno che non si voglia rischiare di finire con una bella denuncia per vilipendio. Ovviamente solo se sei un cittadino qualsiasi. Dopo le accese campagne per convincere i calciatori della Nazionale di calcio a imparare l’inno, c’è infatti un’altra “grande opera” di protezione dell’orgoglio nazionale, stavolta scaturita da un’azione giudiziaria finalizzata a punire il comportamento di un anziano automobilista, il quale, multato dai carabinieri perché se ne andava in giro con la sua auto con un faro rotto, “commentava” la sanzione con un insulto alla nazione (“Italia di m….”).

“Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva”: questo scrivono i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza definitiva, spiegando che per incorrere nella fattispecie di reato prevista dall’articolo 291 del codice penale, “è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente”.

Vilipendio, dunque. Reato, fedina penale sporcata per un semplice sfogo. Una notizia che potrebbe anche far sorridere, se non fosse che, al di là delle legittime attività e aree di intervento della Corte, si tratta dell’ennesima contraddizione di un Paese che ogni giorno affonda nel ridicolo. Non so spiegare per quale collegamento cerebrale, ma questa vicenda ha istintivamente proiettato nella mia mente uno stridente parallelismo tra la decisione della Cassazione e il comunicato emesso, dopo la riunione del 3 luglio, dal Consiglio Supremo di Difesa, che ha affermato, in un incredibile delirio di onnipotenza, che il Parlamento non può porre veti su “decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’Esecutivo”.

Il riferimento, in questo caso, è alla vicenda dell’acquisto dei cacciabombardieri F35, con una spesa prevista di 15 miliardi di euro. Una nota che arriva a una settimana di distanza dalla mozione di maggioranza con la quale non si metteva in discussione l’adesione al programma F35, ma si rinviava la decisione di acquisto per valutare una eventuale riduzione del numero. Una mozione ben diversa da quella di Sel e Mov5Stelle (più i “dissidenti” del Pd), con la quale si chiedeva l’uscita dal programma, nonché la destinazione delle risorse risparmiate all’edilizia scolastica e alla ricerca. Una legittima azione parlamentare che si richiama a una legge (n. 244) del dicembre 2012 che dà alle due camere il diritto di voto sulla decisione del governo in materia.

Ecco perché il Consiglio Supremo di Difesa, presieduto da Giorgio Napolitano, e a cui hanno partecipato il premier Enrico Letta, i ministri Emma Bonino (avrei molto da dire a chi esaltava acriticamente il suo presunto pacifismo…), Angelino Alfano, Fabrizio Saccomanni, Mario Mauro, Flavio Zanonato, e il capo di Stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, ha mostrato un’assoluta mancanza di rispetto per le prerogative del Parlamento. Ha messo in dubbio un principio fondamentale, riconosciuto anche da una legge, oltre che dalla Costituzione. Qualcuno, esasperando il concetto, ha parlato persino di colpo di Stato. Di certo è un’esagerazione, ma di sicuro l’atteggiamento del Consiglio umilia una delle istituzioni più importanti della Repubblica.

Vilipendio? No. Perché lassù, ai vertici del potere, per legge o a parole, tutti possono dire e fare quel che vogliono, minacciare, insultare, distruggere, compiere azioni e partorire leggi che massacrano la dignità umana, la libertà e perfino la vita. In quel caso, nessuna corte interviene, non ci sono sanzioni, reati, sentenze. Nulla. Perché anche se un Paese nella propria Costituzione ripudia la guerra, anche se il suo popolo preferisce vivere in pace, la decisione unilaterale del suo governo di andare in direzione opposta, per di più sottraendo risorse a una collettività che soffre e a cui non sono consentite nemmeno misure efficaci per l’occupazione (mancano i soldi dicono…), non è considerata vilipendio.

In questa Italia (meglio non definirla in alcun modo, non si sa mai) che ha fatto di tutto, flirtato con la mafia e i poteri forti, vilipeso la storia della Repubblica, la Costituzione, la decenza, accade che l’insulto superficiale, generico e istintivo di un anziano di 71 anni diventi reato, mentre chi detiene un patrimonio ricco di offese alla bandiera, all’unità nazionale, alle istituzioni democratiche, alla Capitale, alla Resistenza, ai padri repubblicani, può continuare indisturbato e rimanere impunito. Ha ragione la Corte di Cassazione: non si può dire che l’Italia sia un Paese di m… È molto meglio fotterla quest’Italia, se non si vuol commettere reato. Perché in questo caso sarebbe solo una consuetudine. A quanto pare lecita.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org