Il 20 gennaio 2017, esattamente un anno fa, il 45° neoeletto presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, si insediava alla Casa Bianca. “America first”, “potere al popolo”, “ci riprenderemo i nostri confini”: erano queste le locuzioni che echeggiavano a Washington, davanti al Campidoglio, durante il suo discorso inaugurale. «Il 20 gennaio 2017 – diceva Trump – sarà ricordato come il giorno in cui il popolo è tornato a governare il paese. Gli uomini e le donne dimenticati nel nostro Paese non saranno più dimenticati». Solenni promesse dai toni populisti e una propaganda portata all’esasperazione hanno marcato, in perfetta coerenza con la campagna elettorale iniziata nel 2016, il primo discorso di Trump presidente.

Esiste sempre, però, una categoria di persone da dimenticare, che tuttavia torna utile quando si tratta di ideologie e manipolazione delle masse, quindi dei voti. Ed è proprio su questa categoria che hanno fatto leva, sin dall’inizio della sua campagna, le strategie di comunicazione di Trump e del suo staff. La sorprendente vittoria elettorale del Tycoon, infatti, – o forse è meglio parlare di typhoon (tifone, ndr) – ha alimentato progressivamente, sin da principio, un gelido vento tra i migranti, le cui condizioni hanno subito drastiche trasformazioni dal momento della sua ascesa al potere.

Negli ultimi anni, in America, il tema dell’immigrazione, o più in generale delle politiche migratorie, è diventato una delle questioni politiche più dibattute. Nelle elezioni del 2016, il 70% dell’elettorato lo ha valutato come elemento determinante. Negli Stati Uniti, l’ultima riforma strutturale in materia di immigrazione, la legge IRCA, risale a 32 anni fa e, in questo arco temporale, il sistema giuridico americano non ha prodotto cambiamenti significativi, soprattutto per quanto riguarda lo status degli immigrati privi di un titolo di soggiorno regolare.

Oggi, il 13% della popolazione complessiva degli Stati Uniti (circa 43 milioni) è costituito da persone nate oltre i confini americani. L’inaspettato arrivo di Trump alla presidenza ha avuto delle conseguenze immediate sulla condizione dei migranti ed è diventato quasi ostile da un un punto di vista dello status giuridico. Le prime misure proposte del nuovo presidente riguardavano il potenziamento della polizia di frontiera, la riduzione delle quote di migranti regolari all’anno e, come dimenticarlo, il “Muslim Ban” che ha introdotto nuove restrizioni sui visti d’ingresso per alcuni Paesi a maggioranza musulmana.

Solo qualche giorno fa l’amministrazione Trump ha rilasciato un report che molti giudicano di discutibile attendibilità e secondo il quale oltre il 70% delle persone condannate per reati legati al terrorismo, tra il 2001 e il 2016, sono nate fuori dai confini americani.

Negli ultimi anni, inoltre, nell’opinione pubblica americana si è delineata una forte polarizzazione quando si parla del tema dell’immigrazione e un grande contributo a questo processo lo ha dato il fenomeno delle fake news. Negli Stati Uniti, la maggior parte delle notizie passa attraverso i new media, quindi c’è un costante tentativo di decostruzione dei fatti per ridisegnare la realtà secondo determinate visioni politiche. Suona familiare, vero? (L’unica differenza con l’Italia in questo senso è che qui le principali fonti di informazioni rimangono quelle tradizionali – tv, radio, giornali).

Non sarebbe una sorpresa, infatti, scoprire che in America persiste un’immagine negativa dei migranti. Quasi la metà degli americani, secondo le più recenti statistiche, ha affermato che l’immigrazione verso gli USA dovrebbe diminuire. L’ostinazione a collegare l’immigrazione al terrorismo, quindi, non era solo materiale esclusivamente da utilizzare in campagna elettorale, ma si è purtroppo materializzata in provvedimenti effettivi e misure reali. Proprio come la questione dei Dreamers.

Uno dei provvedimenti esecutivi più interessanti introdotti dalla precedente amministrazione è stato il DACA, “Deferred Action for Childhood Arrivals”. Si tratta di un programma federale, fortemente voluto da Obama e messo in atto nell’ormai lontano 2012, che mira a tutelare tutte quelle persone arrivate da minorenni (under 16) negli Stati Uniti, accompagnati da genitori irregolari: i cosiddetti Dreamers (che prendono il nome da un disegno di legge mai approvato e presentato dal Congresso americano nel 2001, il “DREAM Act – Development, Relief and Education for Alien Minors”). Grazie a questa misura normativa, 800 mila giovani hanno visto concretizzarsi la possibilità di restare negli Stati Uniti per scopi di lavoro o studio e a loro venivano garantiti un permesso di lavoro, la possibilità di studiare e una protezione dall’espulsione per un periodo di due anni (e rinnovabile).

Tale misura è già stata messa in discussione da Trump a settembre scorso: il DACA, infatti, dovrebbe scadere definitivamente a marzo e quindi il Congresso, nei successivi sei mesi, dovrà trovare una soluzione alternativa. Nel frattempo, però, un giudice federale di San Francisco ha bloccato temporaneamente l’ordine esecutivo di Trump di porre fine a questo programma; quindi per il momento il provvedimento rimane attivo ma non è chiaro fino a quando e quale sarebbe l’eventuale alternativa. I giovani coinvolti rimangono così in un limbo di incertezza. Americani de facto che studiano o lavorano e che rischiano di trovarsi espulsi.

“Make America great again”. Quello che ha fatto diventare l’America grandiosa sono state altre generazioni di “dreamers”. Anche Trump nel suo discorso inaugurale di un anno fa invocava il sogno americano. Ma sarebbe utile più che mai ricordare che, ad esempio, solo 55 anni fa negli Stati Uniti, su sogni e sognatori echeggiavano tutt’altre parole, pronunciate da Martin Luther King: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!».

AdrenAlina -ilmegafono.org