La strategia è di accerchiamento e non è piacevole. Il Financial Times, così come aveva fatto l’ambasciatore americano in precedenza, prospetta scenari apocalittici; molti osservatori europei, pur se tra le righe, sembrano paventare il rischio di una exit italiana; Repubblica tira fuori l’Istat (che tempismo…) e la sua indagine che mostra un miglioramento delle condizioni degli italiani e un po’ di ottimismo dopo cinque anni. Insomma, sono saliti in tanti sul carro del Sì. E si aggiungono, come un coretto, ai ministri e al governo, a chi ha scelto di rendere politico e “partitico” quello che avrebbe dovuto semplicemente essere un importante strumento di decisione dell’elettorato sulla forma della Repubblica. Qualcosa che ci terremo per decenni e che non potremo poi correggere facilmente, come una normale legge e come qualcuno vorrebbe far credere.

Renzi predica toni bassi e intanto però rincara la dose, non tanto con la definizione di “accozzaglia” assegnata al fronte del No, presentato artatamente come una omogenea e rozza mistura di nemici del cambiamento, quanto con la spiegazione con la quale ha accompagnato le sue successive scuse. Il premier ha precisato che non intendeva definire accozzaglia in senso stretto chi non vota per lui (ha detto proprio così: “per me”), ma si riferiva più precisamente a un gruppo di persone e storie politiche troppo diverse, lontane tra loro al punto che ci si chiede come possano “costruire un’alternativa a questo governo”.

Sta tutto in questa goffa e ingenua spiegazione lo scriteriato peso politico che Renzi ha caricato sulla campagna referendaria. Un segno di preoccupante egocentrismo che ubriaca il senso stesso di un confronto possibile. Per l’ex sindaco di Firenze, il referendum equivale infatti a un’elezione politica, con schieramenti definiti, con coalizioni alternative. Non c’è spazio per le vie di mezzo, per i distinguo che solitamente sono tipici dei voti referendari. Per lui che ha legato da subito la vittoria del Sì alla sopravvivenza del suo governo, il Sì e il No sono due facce definite di una competizione elettorale dal tono personalistico: o con me o contro di me.

La parte a lui avversa, in questo modo, assume automaticamente la sagoma confusa di un’alternativa di governo. Non importa se tra l’elettorato del No non ci sono solo i partiti di opposizione, ma anche associazioni, giuristi, semplici cittadini, intellettuali, artisti. Persone che, leggendo la riforma, non ne approvano parti sostanziali o ne temono il combinato con la legge elettorale che, al di là delle promesse, rimane quell’Italicum bocciato da molti. Agli alfieri del Sì non importa che nel fronte opposto ci siano anche molti cittadini che sarebbero disponibili a modificare alcune parti della Costituzione, ma con criteri e metodi differenti. E non importa nemmeno che ci siano persino coloro i quali su alcuni punti della riforma potrebbero trovarsi d’accordo, ma su altri, ritenuti ben più importanti e con maggior peso, restano in netto disaccordo. La realtà del No è questa ed è tutt’altro che omogenea.

Cosa c’entra allora l’accozzaglia? Cosa c’entrano le coalizioni, le alternative politiche, il “vota per me o contro di me”? Cosa c’entra l’instabilità di cui parlano ogni minuto, su qualsiasi mezzo di comunicazione, i sostenitori del Sì? Chi l’ha voluto questo rischio di instabilità? Vittorio Zucconi, qualche giorno fa, ha detto che Renzi si è giocato tutto, sbagliando, e che una sua sconfitta oggi lo dimezzerebbe politicamente, costringendolo alle dimissioni con il rischio di un futuro governo in mano a Salvini o Grillo. Quindi, in sintesi, dovremmo cambiare in peggio la Costituzione pur di salvare un governo che, comunque, cambierà prima o poi. Con la differenza che con il nuovo sistema si consegnerebbe a un futuro esecutivo una maggioranza blindata.

Renzi ha rischiato, sperando anche in una vittoria della Clinton e in una crescita economica che non c’è stata. Un azzardo che lo ha portato ad alzare i toni e che ora rischia di travolgerlo. Ma di chi sono le colpe? La verità è che in un Paese normale, le riforme si dovrebbero condividere con un dibattito nel quale non sia la maggioranza a dettare le regole con arroganza, negando il dialogo a colpi di insulti, di “vecchio trombone” o “gufo” nei confronti di persone, anche autorevoli e competenti, che provano a ragionare e dialogare su rischi e garanzie. In un’Italia normale, il parlamento dovrebbe approvare una riforma costituzionale e il popolo dovrebbe essere chiamato a esprimersi senza che ciò si trasformi in una rissa e senza che ciò si leghi a doppio filo con la permanenza del governo. Ma per far questo servirebbe applicarla la nostra Costituzione, in questo come in tanti altri ambiti.

Forse, invece di mutarla radicalmente e quasi rottamarla, si farebbe prima e meglio ad applicarla nelle norme e soprattutto nei principi e nei comportamenti che ne derivano. Fa impressione vedere come Renzi si sia sempre richiamato alla Costituzione per legittimare (giustamente) la sussistenza del proprio mandato governativo, ma oggi dimentica il principio morale e politico che suggerirebbe che un parlamento eletto con una legge dichiarata poi incostituzionale evitasse di proporre una riforma così ampia della Carta e della Repubblica e si limitasse a legiferare per affrontare i problemi del Paese, ad approvare una buona legge elettorale e portare a termine la legislatura nel miglior modo possibile.

Questo significherebbe agire per il bene comune, essere in una condizione di amore per il reciproco (maggioranza/opposizione) senso delle istituzioni, vivere la politica come un civile confronto volto all’interesse di tutti, seppur nella divergenza di visioni. Invece siamo caduti in una corrida, in una campagna elettorale permanente nella quale si consumano anche rese dei conti interne ai partiti, tutto sulla pelle della nazione e della sua Carta fondamentale.

Una campagna elettorale deprimente (da entrambe le parti) che scoraggia anche chi questa riforma la valuta nel merito, sia che la contesti o che la appoggi. Si fa davvero fatica a trovare un terreno di confronto e si arriva persino a lasciar perdere, perché tanto di interlocuzioni costruttive e civili non se ne trovano nemmeno a cercarle. Ed è la cosa obiettivamene più brutta di tutto questo odioso clima referendario, di questa battaglia giocata sempre più sulla comunicazione che sulla conoscenza del diritto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org