Quando, più di 12 anni fa, decisi di andare a Cassibile alle prime ore del mattino, rimasi colpito da quel brulicare di persone in attesa di essere scelte e, poco dopo, caricate sui furgoncini e sulle vecchie Mercedes dei caporali. Era la prima volta che andavo a quell’ora per osservare i caporali e, anche se sapevo già cosa avveniva, l’impatto fu molto forte. Ricordo bene i volti afflitti e rassegnati di chi, quel giorno, non era stato selezionato. Li osservai rapidamente, attraversando in auto la via Nazionale. All’epoca ero un giornalista di provincia che collaborava con settimanali locali, così mi capitava di frequente di accompagnare a Cassibile colleghi di testate nazionali interessati a sapere di più su quel che accadeva in zona. Quella volta, insieme a me c’era una collega di un’emittente nazionale, che pochi minuti prima del mio arrivo aveva intervistato un bracciante, che stava per arrivare in piazza ad aspettare il suo turno. Ci eravamo messi in una posizione più defilata rispetto a quanto stava accadendo, guardavamo da lontano, anche perché le telecamere non potevano avvicinarsi troppo. L’aria era umida, le luci del borgo avevano un alone spettrale.

Qualche tempo dopo, nel 2010, insieme ad un’altra collega che avevo accompagnato tra i casolari e i campi, andammo nella zona dell'”Hotel Sudan”, di fronte al primo casolare lungo la trazzera dissestata. Era metà mattinata, la selezione dei caporali era passata da qualche ora, la giornata era bellissima, calda e luminosa. Riuscimmo a convincere due braccianti a raccontare la loro situazione. I due ragazzi quel giorno non erano stati scelti ed erano tornati all'”Hotel Sudan”. Avevamo appena iniziato a parlare, quando una utilitaria celeste, guidata da un uomo, ci passò davanti, guardandoci rapidamente, per poi fermarsi quasi in fondo alla trazzera. I due ragazzi ci chiesero di aspettare un attimo ed entrarono nel casolare. Sembrava avessero dimenticato di prendere qualcosa. Passò qualche minuto e non tornavano. Pochi istanti dopo li vidi percorrere il terreno retrostante, attraversare un campo, spuntare proprio lì in fondo alla strada e avvicinarsi all’utilitaria. Dopo aver parlato con loro per qualche minuto, tornarono indietro dicendoci che non volevano parlare più. Intanto l’auto era tornata indietro lentamente, sempre guardandoci, e se n’era andata via. L’uomo alla guida era italiano.

Non dimenticherò mai il suo volto. Avrà avuto non più di 45 anni, carnagione scura, capelli lunghi fino al collo, un anello vistoso al dito. Non lo dimenticherò mai perché quando, al termine di quella mattinata, salutai la collega e ripresi la mia auto per tornare a Siracusa (mentre lei proseguiva per un altro impegno in provincia), mi accorsi che quella utilitaria celeste mi seguiva. Lo ha fatto fino all’ingresso della città, fino a uno slargo che si chiama piazzale Marconi, per poi svoltare e tornare indietro in direzione Cassibile. Non l’ho rivisto più, ma quell’anno, per tutta una serie di ragioni ed episodi, iniziai a guardarmi intorno. Nel corso degli anni successivi, sono tornato tante volte nei campi, negli accampamenti di fortuna, dentro le baraccopoli. Ho incontrato ragazzi spaventati e altri coraggiosi, rassegnati o arrabbiati. Sempre più stanchi. Li ho incontrati anche l’anno scorso, quando per tutti il nemico era il Covid, mentre per loro oltre al Covid c’era da combattere freddo, miseria, sfruttamento, isolamento, dentro una baraccopoli nella quale questa città li ha relegati, tra fango e lamiere, tra insetti, insulti, minacce e plastica. Anche l’anno scorso mi sono accorto che c’erano quelli che erano lì per controllare gli altri.

Sono caporali o subcaporali. Quelli che quando arrivi per parlare con un bracciante ti guardano male e con sospetto. Tra loro ci sono quelli che un tempo erano braccianti e poi hanno scelto di passare dall’altra parte. Si sono fatti furbi, per carattere sono riusciti a diventare “imprenditori” di carne umana. Sono schiavisti. Seguono la propria “merce” lungo il viaggio nelle varie campagne di raccolta in diverse parti d’Italia. Questo fenomeno lo scoprii per la prima volta nel 2010, grazie alla testimonianza di un lavoratore straniero, quando mi sono occupato di Rosarno. Ne parlai con l’allora procuratore di Palmi, Creazzo, che fu il primo a colpire, proprio nel 2010, non solo i caporali ma anche i proprietari terrieri e a confermarmi che il caporalato non era più solo stanziale ma era anch’esso un fenomeno migrante. Da Foggia a Rosarno, da Gioia Tauro a Palagonia, a Cassibile: fu questo il tragitto che riuscimmo a ricostruire insieme a un paio di braccianti arrivati poi in Sicilia. Lo stesso avviene anche oggi. Da Campobello di Mazara, a Ribera, a Cassibile, e così via. Schiavi vessati dagli stessi padroni, anzi dagli intermediari dei padroni.

I caporali, in Italia, sono principalmente nordafricani e italiani, sono loro quelli che contano, quelli ai quali non bisogna pestare i piedi. A Cassibile i nordafricani, soprattutto quelli che vivono in zona, sono i più potenti. Un bracciante africano, due anni fa, mi raccontò di un caporale marocchino che oltre a “vendere” i suoi lavoratori a un padrone, lavora anche per lui, come guardiano, costringendo i lavoratori a ritmi bestiali per raccogliere più patate possibili in un solo giorno. “Urla, picchia, controlla che tu non ti fermi e guai se protesti. Come minimo non lavori più”. Per questo caporale, mi disse il bracciante, “lavoriamo circa in cento, immagina quanto guadagna, se pensi che in media ognuno di noi gli frutta 5-10 euro al giorno”. Ma nessuno denuncia, perché la paura è tanta. Poi ci sono gli altri, quelli che più comunemente i braccianti chiamano subcaporali. Sono soprattutto senegalesi e sudanesi. A confermarmelo sono in tre: “Ci seguono in diverse zone. Ad esempio, noi li abbiamo trovati sia a Campobello sia a Cassibile”, mi dicono. “Anche quest’anno saranno qui, come l’anno scorso”. E dormono spesso in mezzo ai campi con i braccianti che gestiscono, con gli schiavi che vendono e controllano. Tutto senza che vi sia alcun intervento deciso della legge, non solo su di loro, ma anche e soprattutto sulle aziende che se ne servono consapevolmente.

La via Nazionale al mattino è il luogo di un rito funesto, nel quale qualsiasi conquista di diritto del lavoro e di giustizia sociale viene assassinata nel nome del profitto e dell’indifferenza. A vedere, alle 5 del mattino, quello che accade ancora oggi, ci sono tornato l’ultima volta due anni fa. Sono arrivato da Siracusa, sorpassando tante biciclette e motorini cavalcati da ragazzi dalla pelle nera. Le bici le ho incontrate in viale Paolo Orsi e in via Elorina, all’uscita di Siracusa, dirette ai mercati generali, dove i migranti lavorano per caricare e scaricare cassette, naturalmente con pochi diritti e con tanto lavoro nero, come avviene in tanti, se non tutti i mercati ortofrutticoli italiani. I motorini, giusto un paio, li ho incontrati sulla lunga e buia statale che porta a Cassibile. A guidarli, ragazzi dai volti assonnati, corpi rinchiusi in strati di maglioni e giubbotti per sopportare il freddo umido che proviene dalle campagne e ti entra nelle ossa, dandoti il primo avvertimento già all’inizio, nel ponticello che oltrepassa il fiume Ciane, quando ancora le luci di Siracusa sono appena alle spalle. Sono andato con un’idea diversa, due anni fa. Non per fare interviste o guardare senza essere visto. Sono andato per guardare con i miei occhi da vicino, il più vicino possibile.

Ho indossato un paio di jeans vecchi, un maglione liso, un giubbotto ancora più vecchio e sciupato e con il collo alto che mi copriva fin quasi al naso. Un berretto di lana che non uso più e un paio di occhiali da vista che non funzionano. Le scarpe erano quelle più malridotte che sono riuscito a trovare. Sono arrivato a Cassibile, dove avevo appuntamento con due amici che dovevano darmi una mano, farmi da “scorta”, da “custodi”, girare con le auto prima per fare una perlustrazione, poi lasciarmi per strada e recuperarmi nel caso in cui la situazione fosse diventata pericolosa. Tra le 5.15 e le 5.30 del mattino, Cassibile cambia volto. Dalle campagne di fronte all’antico borgo, dove vi era l’accampamento di fortuna, decine di ragazzi e uomini soprattutto dalla pelle nera, uscivano e si mettevano in cammino lungo la strada che porta al centro della frazione. Il buio della notte pian piano si disperdeva e l’alba cominciava a riflettere la sua luce sui volti assonnati dei ragazzi fermi ai bordi della strada, in piazza, davanti alla chiesa e ai bar o agli alimentari. In attesa. Mi sono buttato nel mezzo. Mi sono mischiato a loro, silenziosamente. Nei bar che vendevano caffè, bottiglie d’acqua, cibo, negli alimentari che preparavano panini. Vedevo le facce stanche dei lavoratori, che non avevano alcuna voglia di parlare.

Non ci sono molti lavoratori dell’est o dalla pelle bianca come la mia, ma qualcuno al campo lo avevo incontrato. Stavo zitto per cercare di essere scambiato per uno di loro o uno appena arrivato. Conosco pochissime parole di rumeno, ne avevo ripassata qualcuna in caso di necessità, ma sarebbe stato comunque pericoloso. La cosa migliore era cercare di non farmi notare troppo, perché tra le baracche ci ero andato troppo spesso e qualcuno avrebbe potuto riconoscermi dagli occhi, nonostante gli occhiali e il volto coperto fino a sopra il naso. In effetti qualcuno che mi ha notato c’è stato. Proprio mentre ero davanti al bar. Mi fissavano in due, ma non li conoscevo. Erano due di quelli che stavano radunando alcuni braccianti, in fila ai lati della strada, poco più avanti della macelleria. Erano caporali o subcaporali e, dai tratti, molto probabilmente sudanesi.

Quando hanno iniziato a sembrare più nervosi ho deciso di allontanarmi e di accodarmi a un gruppo di braccianti che camminava in direzione nord (per intenderci verso l’uscita del borgo che porta verso Siracusa). Abbiamo attraversato tutta la via Nazionale, fino a quando non siamo arrivati al luogo prestabilito dai caporali, vicino a una fontanella d’acqua. A quel punto ho attraversato la strada e ho iniziato a osservare tutto. Pian piano sono arrivati loro: i caporali. Una Mercedes blu, con alla guida un nordafricano, è uscita da una traversa. Stava iniziando il momento del “carico”. Ho chiamato uno dei miei “custodi”, per chiedere di venirmi a recuperare. Abbiamo iniziato a fare il giro del borgo. Abbiamo visto e documentato tutto. Caporali, in gran parte nordafricani, ma non solo. Facce dure e sguardi attenti.

Furgoncini bianchi, blu, gialli, rossi, pieni di braccianti, stipati e partiti in direzione nord e sud. Poi auto, ancora una mercedes grigia, l’abbiamo seguita fino a quando è stato possibile, andava verso le campagne tra Fontane Bianche ed Avola. Gli ultimi “carichi” sono finiti alle 6.45 circa. In tutto questo, in quasi due ore da quando, ancora con il buio, siamo arrivati a Cassibile, non abbiamo visto una sola volante, una gazzella, una divisa. Non abbiamo visto nessuno, come non mai visto nessuno nemmeno le altre volte in cui sono andato al mattino, anche solo passando in auto per osservare cosa accadeva e se qualcosa cambiava. Niente. Naturalmente no ho mai visto nemmeno un gruppo di volontari di associazioni che in questa città si occupano di diritti dei migranti, non ho visto la parrocchia o la gente del borgo andare per strada all’alba a distribuire magari acqua e panini ai lavoratori sfruttati, in segno di solidarietà. Non ho mai visto un picchetto sindacale, naturalmente, o un presidio all’alba da parte delle apposite categorie dei sindacati confederali. E non ho mai visto i capipopolo, le fantomatiche associazioni civiche e i famosi “comitati”, di solito così agguerriti quando c’è da attaccare i braccianti per calcolo politico, ma incredibilmente mansueti e assenti al mattino, quando si potrebbe protestare contro i caporali e chi li assolda. Non ho mai visto sindaci, né assessori, di mattina a Cassibile.

Sarà stato un caso, sarò stato sfortunato… O più probabilmente sarà che questa città preferisce dormire e vuole continuare a farlo. Per poi con la luce del giorno e il sole già alto lamentarsi, magari puntando il dito sulle vittime o sugli altri, su quei pochi che sono rimasti coscienti.

Ci vediamo martedì 2 marzo alle ore 20 con il nono capitolo. A presto.

MP