Il referendum che si è svolto lo scorso 25 settembre nella regione autonoma del Kurdistan iracheno e nelle province di Sinjar e Kirkuk, in Iraq, oltre ad avere un altissimo valore simbolico, apre diverse questioni sul futuro di tutto il Medio Oriente. Secondo i risultati preliminari del voto, il 92,73 per cento di chi si è recato alle urne si è espresso a favore dell’indipendenza, ovvero circa 2 milioni e 861 mila di persone. I dati forniti dalla Commissione elettorale di Erbil includono anche quelli dei votanti nelle zone contese (con Baghdad) di Sinjar, nella provincia di Ninive, e Kirkuk.

L’affluenza alle urne è stata del 72 per cento e il presidente della regione autonoma, Masoud Barzani, ha proclamato la vittoria a poche ore dal voto, senza nemmeno aspettare la comunicazione ufficiale della commissione elettorale. Barzani ha ricordato, nelle sue dichiarazioni, le persecuzioni subite dal popolo curdo in Iraq durante il regime di Saddam Hussein e ha lanciato un messaggio di apertura al governo federale e ai paesi vicini, invitando tutti alla calma e al dialogo.

Il referendum ha un valore consultivo, non è riconosciuto dal governo né dal parlamento iracheno ed è stato fortemente contestato da Turchia, Iran e Stati Uniti. Le conseguenze sui futuri rapporti della ricca regione petrolifera del Kurdistan con Baghdad e i paesi vicini sono però ancora imprevedibili. Nonostante gli inviti al dialogo di Barzani, infatti, il governo di Baghdad, almeno per ora, non sembra disponibile in alcun modo a concedere maggiore autonomia alla regione curda. Anzi, Baghdad ha chiesto a Turchia e Iran di chiudere tutti i valichi di confine con la regione del Kurdistan iracheno. Lo ha reso noto un portavoce del ministero degli Esteri, dichiarando che “il governo iracheno sta collaborando con la Turchia e l’Iran per prendere tutte le misure necessarie per difendere la legge e la Costituzione”.

Sia Ankara che Teheran hanno fortemente contestato il referendum curdo e in particolare la Turchia che, sin dall’inizio, ha minacciato Erbil di ritorsioni. Il capo dello Stato turco, Recep Tayyip Erdogan, ha minacciato di chiudere l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan che trasporta il petrolio prodotto dai giacimenti petroliferi situati nella regione autonoma del Kurdistan verso la Turchia e i mercati europei. Dopo il voto, invece, il premier Binali Yildirim, al termine di un colloquio telefonico con il premier iracheno, Haider al Abadi, ha fatto sapere che ora la Turchia intende trattare soltanto con le autorità federali di Baghdad per le esportazioni petrolifere.

Yildirim però non ha chiarito come la Turchia intende affrontare la questione, dato che dall’oleodotto Kirkuk-Ceyhan transitano ogni giorno più di 500 mila barili di petrolio, provenienti sia dai campi petroliferi del Kurdistan che da quelli della regione di Kirkuk. Dopo l’avanzata dello Stato islamico nel nord dell’Iraq nel 2014, infatti, gran parte dei siti petroliferi dell’area di Kirkuk sono passati sotto il controllo delle autorità curde e delle forze Peshmerga. Per la Turchia, che dipende per quasi tre quarti del suo fabbisogno energetico dalle importazioni, non sarà facile rinunciare ai suoi accordi con Erbil.

L’Iran, da parte sua, aveva annunciato già domenica 25 settembre di aver chiuso lo spazio aereo da e verso la regione del Kurdistan iracheno, in seguito al fallimento delle iniziative diplomatiche volte ad annullare il referendum. In Iran vivono tra i 4 e i 7 milioni di curdi per la maggior parte sunniti, concentrati nelle province del Kordestan, Azerbaigian occidentale, Ilam e Khermanshah. La teocrazia sciita di Teheran è sempre stata diffidente verso le minoranze. La lingua curda non viene insegnata nelle scuole e i curdi sunniti si sentono discriminati per motivi religiosi. È quindi comprensibile che il voto dei curdi iracheni possa creare qualche inquietudine anche nel paese vicino.

A preoccupare Turchia e Iran sono anche i curdi siriani che lo scorso anno hanno creato una loro regione “autonoma”, chiamata Federazione democratica del Nord della Siria, divisa in tre cantoni. Che i curdi possano stabilire un proprio stato a cavallo di Turchia e Iraq, unendo le due regioni, sembra però altamente improbabile. Come nel caso di molti indipendentisti catalani, infatti, la consultazione popolare rappresenta solo uno strumento per difendere le proprie istanze e ottenere maggiore autonomia, sfruttando le opportunità offerte dal contesto.

G.L. -ilmegafono.org