Dopo una campagna elettorale segnata da polemiche e atti di violenza, il popolo ha dimostrato domenica 7 giugno di poter cambiare idea e di poter scegliere, in modo democratico, da chi vuole essere governato. I risultati del voto hanno infatti rivelato, per la prima volta in 12 anni, una certa insoddisfazione nei confronti del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdogan, attuale presidente della Repubblica. Secondo i risultati non ancora definitivi delle elezioni generali, l’Akp ha ottenuto il 40,79 per cento dei voti e 258 seggi in parlamento, 18 in meno di quelli necessari per avere la maggioranza. L’Akp sarà quindi costretto a formare un governo di minoranza o una coalizione, ipotesi che finora i suoi padri fondatori, Erdogan in primis, non avevano mai preso in considerazione.

I risultati definitivi del voto saranno resi noti entro la terza settimana di giugno, ma non dovrebbero variare di molto. Sempre secondo i dati “temporanei”, il Partito repubblicano del popolo, erede della forza politica guidata dal fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk, ha ottenuto il 25,07 per cento dei voti e 132 seggi, seguito dal Movimento nazionalista (Mhp, braccio politico dei Lupi grigi) con il 16,38 per cento e 81 seggi. Per la prima volta una forza politica che si propone come legittimo rappresentante dei curdi, il Partito democratico dei popoli (Hdp), ha superato la soglia di sbarramento del 10 per cento, piazzandosi al quarto posto con il 12,98 per cento dei voti e ben 79 seggi.

Gli scenari che ora si presentano davanti al paese, nei 45 giorni previsti dalla Costituzione per la formazione del governo, sono molteplici. Il partito di Erdogan potrà infatti creare coalizioni con tutte le forze politiche che gli garantiscano la maggioranza in parlamento, anche se il suo partner “ideale” sarebbe il Movimento nazionalista, conservatore e quindi più vicino alle posizioni del premier. Una tale ipotesi non favorirebbe però il processo di pace con i curdi, iniziato due anni e mezzo fa con i colloqui tra il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Ocalan, e i vertici dei servizi segreti turchi.

A marzo scorso, Ocalan ha invitato per la prima volta i suoi seguaci a deporre le armi e concludere il processo di pace per garantire alla minoranza curda maggiore autonomia e un pieno riconoscimento in seno al paese. L’Hdp si è fatto portatore delle istanze di Ocalan. Il suo co-presidente, Selahattin Demirtas, è apparso alla comunità internazionale come lo Tsipras della Turchia, esponente della sinistra libertaria, pluralista e gay friendly, ma dai settori nazional-conservatori turchi il suo partito è ancora percepito come una formazione identitaria curda.

Al di là delle possibili coalizioni che l’Akp potrà formare per governare, che sicuramente non garantiranno al paese un periodo di stabilità politica ed economica, la Turchia si è incamminata su un nuovo percorso. I curdi sono stati “istituzionalizzati”, Erdogan sarà costretto a rinunciare alla sua ambiziosa riforma presidenziale che gli avrebbe assicurato pieni poteri esecutivi come presidente della Repubblica e molto probabilmente il governo dovrà rivedere, almeno in parte, le nuove leggi draconiane adottate nel settore della magistratura e delle forze di polizia.

Che tutto questo possa portare a una soluzione delle questioni che ancora pesano sul paese, considerato dalla comunità internazionale come la porta per l’arrivo in Siria e in Iraq di combattenti stranieri affiliati allo Stato islamico, è da vedere. Dal voto di domenica è emersa però una volontà di rinnovamento che difficilmente potrà essere trascurata da chiunque vada al governo.

G.L. -ilmegafono.org