Di fronte alla gente che protesta, che scende in piazza per reclamare un diritto o semplicemente per esprimere il proprio dissenso, non si può reagire con i veti, i divieti, i blocchi. Qualsiasi cosa sia accaduta a Roma durante la mobilitazione dei cosiddetti “indignados”, nulla giustifica la riduzione di quello che è un diritto intoccabile in un Paese democratico. Soprattutto perché in quello stesso Paese è lo Stato spesso ad agire da delinquente, a calpestare regole, principi e vite umane. La tanto nominata legalità scompare, molto spesso, dentro le stanze e sotto i tappeti di chi poi impiega un istante a nascondere tutto, come fosse niente. Respirare, morire cercando di respirare, da solo, attaccato ad uno spray in un tentativo disperato di salvezza. Come un insetto che batte gli ultimi colpi di ala, drammaticamente, mentre distrattamente qualcuno l’osserva. Agonizzare e poi morire, da solo, non in mezzo ad una strada buia, ma dentro una caserma dei Carabinieri. Non un insetto, ma un essere umano.

È successo quasi un anno fa, dentro una cella del comando provinciale di Brescia. Si chiamava Saidou, senegalese di 37 anni, vittima di due ingiustizie, di due mostri partoriti dalla stessa visione distorta e perversa di quello che è legale in Italia. Lo avevano arrestato perché sprovvisto di permesso di soggiorno ed in possesso di un decreto di espulsione (il famigerato “reato di clandestinità” del governo Berlusconi ne ha determinato la detenzione) e lo avevano condotto, su indicazione del pm, nella cella della caserma bresciana. Un essere umano, uno dei tanti africani in cerca di fortuna, di lavoro, lontano da casa, dalla propria terra, dai propri affetti.

Era un uomo malato di asma. Una crisi improvvisa, la cella fredda e piccola, il respiro che viene a mancare, le forze che cominciano a scomparire. Si spaventa, grida, batte i pugni contro la porta per chiedere aiuto ai carabinieri. Dopo un po’ lo fanno uscire. Sta male, si aggrappa alla porta di ferro, fredda come tutto quello che lo circonda, come l’umanità assente di chi volta le spalle e se ne frega. Si toglie i vestiti, cerca aria, afferra lo spray che può aiutarlo. Un tentativo disperato. Il respiro sempre più affannato, lo sguardo spento, il dolore paralizzante. Sono ben 8 i minuti di agonia di Saidou, prima di morire sotto lo sguardo indifferente dei militari. Non siamo in un carcere libico, siamo in Italia. Nel cuore del Settentrione. Dopo un anno e un’indagine controversa, conclusasi con l’archiviazione da parte della Procura, il video che mostra la triste fine dell’uomo senegalese finisce nelle mani della redazione di Repubblica.

Un video che smentisce le teorie difensive dei Carabinieri, i quali sostengono di essere intervenuti tempestivamente; invece, pare che ci siano voluti 15-20 minuti, secondo un testimone, perché decidessero di aprire la cella, e altri 8 tra l’uscita dalla cella e la morte, senza alcun soccorso, giunto solo 2 minuti dopo che Saidou si era accasciato a terra ormai senza vita. Tra l’altro lo stato di paziente asmatico era noto ai Carabinieri sin dall’arresto, in virtù di un certificato medico presentato dallo stesso 37enne senegalese. Grazie a questo video ed alle tante incongruenze che riesce a smascherare, l’avvocato di Saidou  ha chiesto la riapertura delle indagini. L’ennesimo atto disumano di uomini in divisa nei confronti di migranti, un atto che fa il paio con la strana vicenda del giovane marocchino trovato morto, qualche mese fa, nel canale Frassine a Montagnana, nel padovano.

Il ragazzo, senza fissa dimora, dopo essere stato fermato, sarebbe stato condotto sulle rive del canale ed immerso a testa in giù nell’acqua gelida, un metodo che, a quanto risulta da altre testimonianze, qualche militare della caserma utilizzava spesso. Il suo corpo, una settimana dopo, galleggiava sulle acque del canale. Quando lo hanno recuperato aveva il volto tumefatto ed una ferita alla testa. Un caso su cui è stata aperta un’altra indagine a carico di quattro carabinieri, che a quanto pare avevano il vizio di risolvere privatamente e con metodi sbrigativi certe questioni. E di atti del genere, più o meno gravi, ne accadono ogni giorno, anche se magari finiscono solo sulle cronache locali e non ricevono l’attenzione dei media nazionali. I delitti in divisa sono tanti, troppi e soprattutto vengono troppo spesso taciuti, minimizzati, archiviati, fatti passare sotto silenzio.

Ecco perché così come è idiota avercela in maniera pregiudiziale e indiscriminata con le forze dell’ordine e altrettanto idiota chi continua, al contrario, a dichiararsene sostenitore sempre e comunque, in nome della legalità. Siamo il Paese dell’ingiustizia. Il Paese dove la legalità molte volte è solo un termine, riempito poi di significati distorti che spesso sono orrendi, pericolosi, perversi, macabri. In nome della “legalità”, ad esempio, il ministro Maroni ha compiuto atti di cui forse non risponderà mai sul piano penale, ma che sono una macchia indelebile sulla sua coscienza.

Lo stesso Saidou è una vittima delle scelte di Maroni e pesa sulla sua coscienza, così come le due donne incinte morte sulla banchina di un porto libico, dopo essere state riportate indietro dalle motovedette italiane, a seguito di uno dei primi respingimenti tanto voluti dal ministro. Ma su questo la coscienza di questa Italia dannata non ha tempo né voglia di riflettere. Ormai è chiara una cosa: non è il primato della legalità ciò che chiede la maggioranza degli italiani, ma quello della legge del più forte. O del più vigliacco.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org