La guerra non è mai finita, anche se forse qualcuno voleva farci credere il contrario o almeno convincerci che i focolai fossero lontani, riguardassero pratiche appartenenti alla cultura di un nemico comune ben identificato e costruito scientificamente. Colonia e altre città tedesche sono state utilizzate come terreno di un presunto e ambiguo scontro di civiltà, nel quale una delle due, quella europea e occidentale (e anche americana), si autoproclamava innegabilmente superiore rispetto all’altra. Le donne europee, così, hanno trovato d’improvviso una schiera di uomini che le amano, le rispettano, ne rispettano spazi, libertà, pretendono parità nel mondo del lavoro, combattono insieme a loro contro le discriminazioni. Anche in Italia, tra chi si indignava e chi reclamava con forza il rispetto per la donna, sembrava quasi di essere in un Paese finalmente privo di maschilismo, discriminazioni di genere, arretratezza culturale.

Apparenze, ovviamente. Perché tutta la fierezza per questa presunta civiltà illuminata stona con la realtà di una nazione attraversata dalla violenza, dal dolore, dall’orrore di una guerra infinita, che ci riguarda, che si combatte dentro le nostre case, tra gli ingranaggi ossidati di una tara culturale che non si riesce a sradicare, figlia di un modello di società che non trova più, al suo opposto, un radicale vento di contestazione. Pozzuoli, Brescia, Misterbianco, ma ancor prima Firenze, Cosenza, Cremona e altre ancora: il 2016 è iniziato con una tremenda scia di sangue, di violenza nei confronti delle donne. Femminicidio, una parola che non tornava da un po’, da quando si è smesso di parlarne per bene, lasciando che vi fossero solo le notizie, la cronaca, la mesta e quotidiana cadenza di omicidi ai quali pochi prestano qualcosa in più di un ascolto o una lettura distratta.

Nessun ragionamento approfondito sulle cifre di questa guerra, nemmeno quando a giugno del 2015 sono stati forniti i dati allarmanti di un fenomeno inarrestabile, che attraversa la nazione da nord a sud, smentendo anche gli inutili stereotipi sulla meridionalizzazione della violenza di genere. Secondo l’ISTAT, infatti, con riferimento all’anno 2014, le donne uccise in Italia sono state 152. Di queste, ben 117 sono state uccise in ambito familiare. Al nord si è registrata una recrudescenza, con l’aumento dei casi dell’8,3%, mentre al sud si è avuta una netta diminuzione (-42,7%). Lombardia e Lazio sono le regioni dove si registrano più casi, Milano e Roma guidano la classifica delle città, mentre il centro Italia, per incidenza di casi rapportata al numero di abitanti, è l’area più colpita. Nel nostro Paese, secondo l’ISTAT, le donne che hanno subito nella loro vita almeno una violenza fisica o sessuale sono 6 milioni 788 mila, a cui andrebbero aggiunti i tanti casi non denunciati.

Quasi superfluo aggiungere che la grandissima maggioranza delle violenze avviene in ambito familiare o di ex partner. Insomma, inutile assegnare ad altri, a individui esterni e lontani da noi, il primato di malvagità, perché è solo un modo squallido di non guardarci dentro, di non osservare l’obbrobrio italiano, il virus culturale che fa marcire i diritti delle donne in questo Stato che le umilia continuamente, non le sa difendere, ma soprattutto non sa liberarsi di mentalità e logiche che andrebbero spazzate via. Leggiamoli quei dati, leggiamo per bene le storie di morte che ogni giorno giungono da ogni parte d’Italia. Pensiamo per un attimo a quanto sia triste etnicizzare, a fini di deresponsabilizzazione o di autoassoluzione, un comportamento criminale che non ha confini, non conosce appartenenze specifiche se non quella al genere maschile nel suo insieme, indipendentemente dal luogo di nascita.

Il problema è prima di tutto culturale e riguarda il modo in cui la donna oggi viene considerata, la sporca logica relativa al possesso, al diverso grado di libertà emotiva, sessuale, sociale che il maschio attuale assegna alla donna. Il ritorno indietro, l’arretramento di una lotta liberatrice e paritaria che, nei decenni scorsi, aveva consentito l’emersione di diritti sacrosanti; un legislatore che non fa il possibile per adottare le misure adeguate per la tutela di tali diritti; la distorsione ignobile della percezione della donna e del suo ruolo causata da squallidi vocabolari linguistici, commerciali, politici e religiosi: tutto questo costituisce il terreno fertile per il proliferare della violenza. Anche gli interventi sulla prevenzione e sull’assistenza sono insufficienti.

La legge sullo stalking trova ancora una inadeguata applicazione, soprattutto le forme di tutela dopo una denuncia fanno acqua da tutte le parti e non è ipotizzabile che le forze dell’ordine possano gestire un numero così ampio di casi (c’è infatti un universo di maltrattamenti, umiliazioni e violenze quotidiane, che non sempre arrivano fino all’omicidio). I centri antiviolenza, che in totale sono circa 190, non sempre hanno i mezzi e le risorse necessarie per rendere massima la tutela, ad esempio banalmente dei posti letto per ospitare chi trova il coraggio di lasciare casa insieme ai figli per sfuggire alle percosse e alle minacce dei partner, e così via. In più ci si mette una burocrazia odiosa, paradossale, oltraggiosa (vedi il recente caso di Asti).

Questa è dunque una guerra che, nonostante lo sforzo dei centri, delle volontarie e dei volontari, l’Italia non sembra interessata a combattere e a vincere. Forse perché costringerebbe questo Paese a scoprire la propria vera faccia, l’ipocrisia di una civiltà claudicante, di una superiorità culturale falsa, e perché richiederebbe un impegno vero, difficile, profondo contro un nemico che è dentro di noi, ha le nostre chiavi di casa, le nostre facce comuni, l’apparenza del buon vicinato, la nostra colpevole abitudine all’orrore. La nostra indifferenza.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org