Aveva solo 53 anni Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto, per primo, quella “terra dei fuochi” che ha sconvolto l’Italia intera. Mancini è morto a causa di un tumore al sangue contro cui combatteva sin dal 2002 e dopo aver subito un trapianto di midollo osseo che non ha portato, purtroppo, agli effetti sperati. Lascia una moglie e una figlia dopo aver lottato con coraggio contro una malattia terribile e feroce. La storia di Roberto Mancini inizia a metà degli anni ’90, quando incomincia a lavorare e a indagare sul traffico illecito di rifiuti che coinvolgeva le aziende del Nord e la Campania, cioè quello tra imprenditori e criminalità organizzata.

Tra i nomi delle varie aziende che risultarono colpevoli di traffico illecito spuntò, neanche a farlo apposta, quello della Q8, della quale si è parlato proprio qualche settimana fa su queste pagine a proposito dell’inchiesta che vedeva coinvolti la stessa azienda, i boss della camorra e Nicola Cosentino. Insomma, se il grande lavoro di Mancini viene ricordato oggi, a pochi giorni dalla sua morte, tutto ciò lo si deve soprattutto al fatto che fu proprio lui ad anticipare tutti (persino Saviano con il suo famosissimo e crudo Gomorra, uscito nel 2006). È nel 1996, infatti, che lo stesso Mancini presenta al Parlamento un’informativa che riguarda le connessioni esistenti tra imprenditoria e mafia, ma nessuno vi presta attenzione sino al 2011 e la lotta del poliziotto rimane inascoltata e, per troppi anni, dimenticata.

Successivamente, tra il 1997 e il 2001, Mancini decide di indagare ancora più a fondo e scopre quella che soltanto qualche anno fa è stata definita la terra dei fuochi. È proprio nell’arco di questi 4 anni, infatti, che il poliziotto, ottenuta la carica di consulente per la Commissione rifiuti del Parlamento, esegue delle vere e proprie ispezioni tra i terreni ammalati dalla camorra ed è proprio in quelle circostanze che viene colpito dalla malattia, un male terribile che non lo ha lasciato nemmeno un istante sino al giorno della morte.

Nel 2002, anno della diagnosi di questo tremendo male, il ministero degli Interni classifica il tumore come “causa di servizio” e Mancini ottiene un indennizzo di 5000 euro. Troppo pochi, secondo la famiglia e lo stesso poliziotto, il quale intraprende un’altra estenuante battaglia a favore dei propri diritti e del proprio lavoro, un lavoro così difficile e pericoloso che lo ha portato ad ammalarsi e a dire addio a questa vita nel peggiore dei modi.

Alla fine, gli appelli rivolti al Parlamento dal M5S (che, tra i tanti, ha accolto la battaglia di Mancini per un risarcimento più consono) e da una petizione di cittadini realizzata sul noto sito Change.org, non sono riusciti ad ottenere il risultato sperato. Il Parlamento, invece, dal canto suo, con quella lentezza che caratterizza le nostre istituzioni, avrebbe dovuto aprire un’istruttoria sull’indennizzo proprio il 29 aprile, giorno del decesso di Mancini e della fine di una lotta incredibile.

Se ne va così uno dei poliziotti più importanti per il nostro Stato, uno di quei poliziotti che ha dato e offerto la vita per svolgere al meglio il proprio lavoro e che ha aiutato tutti noi, in maniera decisiva e importantissima, a scoprire quello che si celava sotto la terra di Campania, una terra martoriata da anni di traffici illeciti, di follie umane e di orrori indescrivibili. In una intervista lasciata qualche tempo fa, riporta Repubblica, Mancini ha affermato che “se qualcuno avesse preso in considerazione la mia indagine, forse non ci sarebbe stata Gomorra”. Purtroppo, caro Roberto, l’Italia forse si merita tutto questo e merita di cadere inesorabilmente nel baratro della disperazione e della vergogna. Grazie, caro Roberto, per aver tentato di risollevare un Paese in caduta libera. 

Giovambattista Dato -ilmegafono.org