C’è una ferita profonda nella coscienza collettiva di questo Paese. Anzi, ci sono una serie di ferite private che diventano collettive, perché sempre più diffuse e perché le modalità con cui sono state provocate appaiono tremendamente simili. Tutte insieme compongono un vuoto gigantesco dentro il quale si infila la sensazione che, in Italia, la gestione dell’ordine pubblico non garantisca la salvaguardia dei diritti e della dignità dell’essere umano. Dentro questo vuoto e questa sensazione ci sono storie, drammi, ingiustizie tremende, morti, feriti, ma anche rabbia e paura. Premettendo che non si vuole generalizzare e che le etichette sono sempre discutibili quando si parla di un gruppo composito e numeroso di individui, all’interno del quale c’è anche chi svolge egregiamente il proprio dovere, non si può più ignorare l’esistenza di un problema serio riguardante le forze dell’ordine. Un problema non solo di mele marce ma di sistema, di gestione, di formazione. Di educazione.

Il caso Cucchi, che coinvolge la polizia penitenziaria, è solo l’ultimo di una sfilza di violenze che ha per protagonisti uomini delle forze di polizia italiane e per vittime dei cittadini che non avevano compiuto nulla che giustificasse una legittima difesa o l’utilizzo così spietato della forza. Non è necessario stilare l’elenco degli omicidi commessi dai corpi di polizia o da quelli militari in Italia, perché i nomi sono noti e sembrano ormai strofe di una preghiera tragica che rimane in gran parte inascoltata, anche da chi, dall’alto della sua autonomia istituzionale, dovrebbe restituire giustizia e invece sceglie di decidere sempre a favore di chi indossa una divisa. Quello che rimane, al di là dei nomi, dei volti tumefatti, del dolore dei familiari, è sempre quel senso di ferita che si insinua dentro la pelle di una nazione, o almeno di quella parte della nazione che vorrebbe vivere in una democrazia in cui non ci siano stanze asettiche all’interno delle quali lo Stato di diritto possa essere torturato e pestato a morte.

Questo senso amaro di ingiustizia brucia di fronte a una verità che viene trasformata in sale da buttare su quella ferita per far aumentare il dolore e scoraggiare chi non vuole arrendersi. C’è qualcuno, dentro i corpi di polizia e dietro le alte scrivanie di Stato, che condivide un’idea pericolosa di ordine e di potere e che non prova imbarazzo nel trasformare l’Italia in un Paese nel quale, a volte, si ripetono i meccanismi di vecchi regimi sparsi per il mondo, quelli che torturavano e uccidevano dentro le prigioni, per strada, nelle sale degli interrogatori, sicuri di avere assoluta impunità. Quelli nei quali ti poteva accadere di uscir di casa e di non tornare mai più. O di tornarci cadavere. Non sono esagerazioni. Basti pensare a quel che è successo a Federico Aldrovandi o a Michele Ferrulli, pestati a morte senza una ragione mentre si trovavano per strada. O a quanto accaduto alla Diaz di Genova, dove il massacro di centinaia di innocenti, solo per puro caso, ha fatto feriti gravi e nessun morto.

La Diaz, altro blackout della democrazia italiana. Un blackout iniziato da una violenza inaudita, ordinata dai vertici e dai loro referenti politici, proseguito con le umiliazioni e le violazioni dei diritti e della dignità degli arrestati, con le mistificazioni, i depistaggi e la fabbricazione di prove false. Un’altra ferita che le istituzioni non hanno mai saputo e voluto disinfettare. Una sporcizia manifesta che è ancora incrostata nel muro delle vergogne italiane. Il problema è di fondo, sta tutto nell’impunità anche morale di chi si macchia di tali atti. Che sia esso un operativo in divisa o un dirigente in giacca e colletto bianco. Una impunità alla cui conservazione concorrono tutti, a partire da alcuni sindacati di polizia, da certi rappresentanti politici, fuori e dentro il parlamento, da alcuni giornali: tutti partecipano, con un minore o maggiore grado di compattezza a seconda di chi sia la vittima.

Non c’è bisogno che il sangue si trasformi necessariamente in morte: di casi di abuso ce ne sono a decine e spesso si limitano alle manganellate, alle teste ferite, agli ematomi, per poi proseguire con la costruzione artificiosa di versioni che negano l’evidenza di immagini e ricostruzioni fedeli (si pensi al recente caso delle manganellate ai lavoratori Fiom a Roma). Ma la violenza è anche postuma ed è psicologica e verbale: si estrinseca negli applausi e nella solidarietà agli agenti accusati di omicidio e condannati con pene misere, nell’assenza di sanzioni dure e definitive da parte dei vertici del corpo di appartenenza o, come nel caso Cucchi, nelle terribili dichiarazioni degli esponenti di due sindacati di polizia, Coisp e Sappe, che andrebbero isolati e sospesi, viste le imbarazzanti dichiarazioni contro Ilaria Cucchi. Il Coisp, d’altra parte, non è nuovo a episodi di infimo livello, come quando ha difeso gli assassini di Federico Aldrovandi, offendendo e cercando di intimidire una madre che reclamava e reclama ancora giustizia, o come l’assurda querela a Ilaria Cucchi.

Tutti elementi che fanno montare la rabbia e la paura e, come ha giustamente sottolineato un altro sindacato di polizia, il Silp, acuiscono il solco tra la società e chi, tra le forze dell’ordine, con sacrificio e impegno, assolve i propri compiti istituzionali”. Ed è proprio così, perché di fronte a fatti e parole simili è naturale che si generi rabbia nei confronti di un corpo dotato di un irritante diritto all’impunità e che, come diretta conseguenza di quella rabbia, scatti anche la paura di finire (o che i tuoi cari finiscano) tra le mani di simili gruppetti di criminali nascosti dentro a una divisa che non meritano. Una paura che, in uno Stato moderno, civile e democratico non avrebbe motivo di trovare spazio. Così come non dovrebbero trovare spazio gli oltraggi contro chi ha già subito una grave ingiustizia ed è pure costretto a dover sopportare le battute e perfino le querele di coloro i quali, in nome di una banale difesa corporativa, negano la verità buttandola sul terreno dello scontro ideologico.

Non regge nemmeno la solita linea di difesa delle forze dell’ordine, identica ogni volta nella quale si trovano coinvolte, da carnefici, in un fatto di cronaca: “Si lavora duramente con stipendi bassi e per di più tra l’ostilità generale”, dicono. Non ci si chiede mai da cosa derivi quell’ostilità, si preferisce il vittimismo. Bisognerebbe ricordare a certi esponenti sindacali che, in questo Paese, ci sono tante altre categorie di lavoratori che, non solo hanno stipendi ugualmente bassi, ma non hanno nemmeno quelle garanzie e quei benefici minimi che invece ha chi lavora per la pubblica amministrazione. Bisognerebbe ricordare anche che questi lavoratori, precari, a rischio, malpagati e senza garanzie per il futuro, sono spesso dentro i cortei pacifici che i funzionari di polizia invitano a caricare e a manganellare, anche quando non ce n’è motivo.

Bisognerebbe ricordare che molte delle teste e delle schiene che vengono manganellate appartengono a chi si occupa di solidarietà, giustizia, diritti, assistenza alle fasce deboli, lotta concreta alla mafia, sul piano sociale, educativo, culturale, e lo fa volontariamente, anche se non ha un lavoro. E se lo fa o se va in piazza a reclamare un diritto è per il bene di tutti, anche dei poliziotti e dei loro figli. Pertanto, non esistono scuse professionali che autorizzino violazioni dei diritti e della dignità degli altri cittadini.

Ecco perché, invece di perdersi in solidarietà corporative abbastanza discutibili e offensive, i vertici delle forze di polizia, il governo e i sindacati di categoria dovrebbero ragionare con lucidità, condannando e sanzionando chi commette abusi e chi solidarizza con loro, e dialogando con chi chiede caschi e divise con codici identificativi, per tutelare sia i cittadini che gli agenti che operano nel rispetto delle regole, isolando i violenti. Invece, nelle proposte sulle regole di ingaggio durante  i cortei, i sindacati continuano a seguire la linea dura, chiedendo misure e strumenti ancora più violenti e imponendo livelli di tolleranza ancora più bassi. Peggio per loro. La chiusura al dialogo e l’arroganza non servono, perché alimentano l’odio e penalizzano anche quei tanti lavoratori delle forze dell’ordine che fanno il loro dovere (e magari in cuor loro si indignano) e che al momento, però, sembrano essere in minoranza.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org