Una delle più gravi mancanze nella giovane storia democratica di questo Paese è la solidarietà, quella interna e quella esterna. La prima attiene alla capacità di ragionare e agire uniti nell’interesse collettivo, in quella sana contrattazione tra diritti e doveri che dovrebbe generare il modello di comunità (nazionale) più vicino a quello ideale, con la possibilità pertanto di sanare anche le eventuali storture o deviazioni. In poche parole, unirsi per reclamare quell’insieme di diritti che, se non riguardano noi da vicino, potranno comunque riguardare i nostri figli, il futuro del Paese. Se, ad esempio, si mette mano alla riforma dell’istruzione e si sta per dare un colpo alla scuola pubblica a vantaggio di interessi privati, non dovrebbero essere solo i collettivi studenteschi o universitari e quei docenti, presidi e rettori intelligenti che li affiancano nella difesa di un principio fondante di una democrazia viva, a protestare, manifestare, chiedere correttivi e dialogo. Dovrebbero essere tutte le categorie, anche quelle che non appartengono al mondo della scuola o dell’università: braccianti, avvocati, medici, geometri, artisti, ingegneri, disoccupati. Tutti.

Perché una nazione che smantella la scuola e disintegra il sistema educativo è destinata a morire. E si muore tutti quanti. In Italia questa unità di azione complessiva non si è mai verificata. Qui si ragiona per compartimenti stagni e il futuro è un fatto individuale. La logica è quella del capobranco, che pensa solo a proteggere sé e i propri cuccioli. Di tutto il resto importa poco o nulla. “Che si arrangino”. “In qualche modo faremo”. “Tanto possiamo sempre aggirare qualche ostacolo o qualche regola”. Un atteggiamento che si ingrossa e si moltiplica in maniera esponenziale (ecco il secondo tipo di mancanza, quello relativo alla solidarietà esterna) quando chiudiamo gli occhi dinnanzi ai fenomeni mondiali, a ciò che in realtà riguarda noi e il nostro futuro, ma che preferiamo trattare come un fastidio, un problema o, nella migliore delle ipotesi, come una semplice e momentanea questione umanitaria.

Due euro con un sms, qualche lacrima dinnanzi alle immagini (poche sui media ufficiali) di qualche conflitto lontano o davanti ai corpi di bambini, donne, giovani dentro dei sacchetti verdi messi in fila sulla banchina di un porto o sulla riva di una bella spiaggia del Sud. Poveracci, diciamo. Ma pazienza, “io che ci posso fare?”. E ci puliamo la coscienza strofinandola con la retorica. Questa è l’Italia, anche se ancora non ce ne rendiamo veramente conto e non sono molti gli italiani che di fronte a tale accusa ti rispondono: “È vero”. Perché siamo fatti così, diventiamo orgogliosi di un Paese dentro cui sputiamo ogni giorno soltanto quando ci attaccano. Ecco allora che riscopriamo l’unità, la fierezza, richiamiamo una storia lontana fatta di cultura e grandezza. E, quando gli altri commettono degli atti che non accettiamo, allora contrattacchiamo, ci scagliamo contro di loro con i peggiori insulti, anche se quegli atti somigliano in linea di principio ad altri commessi da noi.

L’ultimo caso è quello della Svizzera, che con un referendum ha imposto delle restrizioni all’ingresso di immigrati dentro i propri confini. Una limitazione questa volta imposta a tutti, sia agli italiani che ai migranti di altre nazioni dell’Europa occidentale. Una scelta che, secondo l’Unione Europea, va contro i trattati siglati sulla libera circolazione tra l’Ue e la Svizzera. L’Italia esprime preoccupazione, visto che il numero di connazionali che lavorano in terra elvetica sono tantissimi. Ed è curioso che proprio dal Ticino (oltre che dalla Svizzera tedesca) arrivino le percentuali più elevate di consenso per la misura anti-immigrati. Insomma, evidentemente non vogliono gli italiani tra i piedi. Per una volta gli stranieri, gli “extracomunitari” siamo noi (concedetemi l’uso forzato del termine, giusto per pareggiare con i tanti utilizzi impropri che se ne fanno in Italia).

Mi verrebbe da chiedere ai frontalieri come ci si senta in questo momento? Magari lo chiederei a quelli dell’area brianzola, a quelli che votano Lega, che gridano “fuori i negri dall’Italia”, quelli che non hanno mai voluto leggere “L’Orda” di Gian Antonio Stella, quelli che ignorano o fingono di ignorare la storia di emigrazione e di sfruttamento che ha riguardato milioni e milioni di italiani per oltre un secolo. Perché la scelta che rimproverano agli svizzeri è la stessa che noi abbiamo compiuto per oltre venti anni e che compiamo ancora, con la differenza sostanziale che noi ricacciamo indietro anche chi scappa da guerre e da una miseria terribile, mentre noi possiamo benissimo tornarcene a casa e fare qualche lavoro che ci permetta di campare, accettando magari di non avvicinarci al livello degli standard di benessere fatuo che ormai sembriamo costretti (o drogati?) a raggiungere.

Ma il problema è che noi non capiremo mai. Diremo che gli svizzeri sono i soliti “stronzi” e “razzisti”, mentre noi siamo tutti onesti lavoratori e soprattutto “brava gente”, che “accogliamo tutti, anche troppo”. Eppure la lezione che si può trarre da questa recente vicenda è fin troppo semplice e affonda le radici nella filosofia antica e nella saggezza storica, quella per cui esiste un’etica, fondamentale per la sussistenza armoniosa di un sistema di individui che interagiscono, che possiamo riassumere in un insegnamento: “Non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te”. Possiamo tenerla a mente questa frase, ripeterla, usarla anche, ma credo che la lezione di civiltà e di comportamento collettivo che la contiene e la significa non la capiremo mai veramente.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org