C’è in atto uno scontro di civiltà e quella perdente è la nostra. Sulle gru del nord Italia gruppi di immigrati protestano per i propri diritti, negati da uno Stato che ha dimenticato la sua origine e la sua storia. Uno Stato violento che risponde con i manganelli e le cariche, mandando nella mischia gente forsennata, dirigenti di polizia che, in preda ad un’estasi belluina, si muovono come vecchi fanti ottocenteschi, annunciando la carica con urla demoniache e gesti grotteschi. A Brescia si è visto tutto questo, si è assistito alla mano dura del potere, che non poteva permettere che i migranti, quei soggetti che si cerca in ogni modo di escludere e tenere nel silenzio, alzassero troppo la voce, catalizzando l’attenzione della gente e dei mass media. Giorno e notte su una gru, al freddo, senza mollare, senza arrendersi. Una gru di ferro, che a qualcuno è sembrata un crocifisso in cui dei poveri cristi cercavano di liberarsi dai chiodi arrugginiti di una società spietata, fatta di leggi razziste, discriminazioni, soprusi, violenze.

Quegli esseri umani che si muovono in equilibrio su quel gigante di ferro sono la metafora della condizione di migliaia di persone, che l’Italia e il resto del cosiddetto Occidente costringono ad una situazione di eterna precarietà, rendendole schiave di un pezzo di carta, emarginandole nel tentativo di renderle facilmente ricattabili, sfruttarle e spremerle fino all’ultima energia. Una vita di inferno, tra file in questura, centinaia di carte spesso incomprensibili e contraddittorie, assurdità di una burocrazia malata, datori di lavoro che ti ingannano, ti sottopagano, ti trattano come fossi una merce a scadenza. Il tempo passa, i misfatti si ripetono, ma ad un certo punto si sceglie di dire basta. Si sale su una gru, perché si è stati ingannati da una legge truffa, perché si capisce bene che qualcuno, per celebrare il proprio rituale di propaganda, ha giocato con la vita di centinaia di migliaia di persone. Non sono come noi questi migranti, non stanno in silenzio, si sono stancati di accettare passivamente in attesa di tempi migliori.

Il tempo è scaduto, l’Italia ha esagerato, ha forzato la mano, ed allora bisogna rispondere, reagire, non a parole, ma con atti concreti, atti forti e civili che facciano sentire e sapere a tutti cosa sta accadendo in questo Paese infame. I migranti ancora una volta ci stanno facendo vergognare, stanno provocando la nostra coscienza, ci stanno mostrando quanto siamo diversi da loro. E la nostra diversità non è un vanto, come qualcuno pensa. Siamo piccoli, molto piccoli, chiusi nei nostri egoismi beceri, passivi, pigri. Non abbiamo fame, perché possiamo permetterci di aspettare, abbiamo comunque un tetto, non ci mancheranno il cibo, la tv, il telefonino o il pc, nessuno ci caccerà mai lontano da casa. Avremo sempre i nostri giri di amicizie, i sabati sera per distrarci, qualche sport da praticare per non pensare, per sfogarci. Ci tapperemo le orecchie ed eviteremo di leggere  i giornali o guardare i notiziari se vorremo evitare di appesantirci le giornate e di riflettere su ciò che avviene. Magari poi ci lamenteremo, distrattamente, senza far troppo rumore, con i nostri amici o parenti.

Ma la fame dov’è? Non esiste, non c’è quella rabbia, non c’è la vita che ci pressa. Quei migranti non possono aspettare, non possono permettersi di staccare il pensiero e rilassarsi, perché la loro giornata è fatta di lavoro e di sopravvivenza, perché il loro chiodo fisso è quel maledetto status di regolare che solo un documento ti può attribuire. E quel documento diventa tuo compagno di vita, diventa il certificato obbligatorio delle tue speranze, delle tue opportunità di sognare. Non possono permettersi il lusso di rinviare, perché in questo Paese infame devono sopravvivere ogni giorno, scansando gli ostacoli e le ingiustizie che si presentano con l’arroganza marcia e gli artigli ben affilati. Resistono e combattono, non si lamentano, ma ad un certo punto non hanno altra scelta se non quella di protestare. Come hanno già fatto a Rosarno ed a Castel Volturno, dove sono scesi in piazza perché stanchi di subire. E già lì ci hanno mostrato il loro coraggio, scendendo per strada in zone in cui si ha paura di occupare le strade per rivendicare diritti, perché chi controlla il territorio non gradisce il rumore del popolo e il popolo accetta il silenzio.

I migranti, però, non sono italiani, non hanno paura, non possono averne. Come mi disse un uomo del Gambia, a proposito degli scontri di Rosarno, “dopo che lasci tutto, rischi la vita per attraversare il deserto e poi il mare, hai a che fare con trafficanti violenti e con la polizia libica, non puoi avere paura di un mafioso che ti minaccia o ti punta una pistola, non puoi permettertelo”. Che lezione ci stanno dando, di civiltà e di coraggio. Una lezione che chi ci governa non potrà mai capire, perché preferisce la durezza ottusa, la crudeltà contro i deboli per sentirsi più forte, allo stesso modo di un bulletto di quartiere, che si sente forte quando ha un coltello in mano e poi, preso da solo e disarmato, mostra la sua codardia. Maroni non sarà Sandokan, ma somiglia molto ad un bulletto di quartiere.

Non puoi chiedergli di capire, di percepire cosa significhi civiltà. Dobbiamo imparare tutti, devono imparare anche a sinistra, anche nel mondo delle associazioni ed in quello giovanile: questi uomini appollaiati sulle gru ci stanno insegnando che non è più il tempo di discutere per mesi delle stesse cose, di indignarsi e basta, seduti sul divano o basando il proprio impegno su tesseramenti, dibattiti sterili, proclami virtuali, overdose di volantinaggi e banchetti informativi, riunioni su riunioni. Questi uomini ci stanno insegnando che la libertà e i diritti bisogna conquistarseli sul campo, con ogni mezzo. Se sapremo fare autocritica e cogliere il senso di questa lezione, forse saremo capaci di cambiare le cose e di aiutare gli africani a salvare questo Paese.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org