Il troppo silenzio non è mai un buon segnale. Gli anni di pax, risultato evidente di una trattativa su cui si è fondata la cosiddetta “Seconda Repubblica”, durano da tanto e hanno conosciuto momenti di equilibrio precario e di rottura, di segreti smascherati e sospetti pericolosi. Il tutto in una cornice di instabilità politica che non costituisce un vantaggio per nessuno (ad eccezione della politica stessa), né per i cittadini né soprattutto per una criminalità organizzata che ha assoluto bisogno di interlocutori di lungo termine, ben radicati nei posti di governo a tutti i livelli. Gli scossoni sono stati numerosi e hanno sempre sfiorato il muso della belva che si finge ammansita, dormiente, attorno ad una quiete che è oro, al Sud come al Nord e al Centro. 

Così, nel tumulto di questi giorni, mentre i magistrati che indagano su quella trattativa continuano come sempre a svolgere il proprio lavoro, a non piegarsi alla volontà di chi vorrebbe che tutto venisse sepolto sotto la polvere di un tempo scomodo, qualcuno ha pensato di romperlo questo silenzio. Con l’autorità lercia guadagnata su un campo sporco di sangue, con il ruggito sinistro di chi ha trascorso buona parte della sua vita ad affondare artigli e denti infetti dentro la carne di una democrazia molle, pronta a drizzare la schiena soltanto a posteriori, quando la strategia dell’isolamento e della calunnia era già giunta al suo risultato atteso.

Totò Riina, quel “capo dei capi” che la tv ha saputo trasformare in un personaggio familiare (magnificandone l’alone di potere), non ha usato mezze parole nel decretare la sua sentenza di condanna. Dal suo carcere di Opera, a Milano, il boss corleonese avrebbe lanciato un ordine perentorio: “Quelli lì devono morire, fosse l’ultima cosa che faccio”. Se lo dicesse un uomo comune potrebbe essere considerato uno scatto di rabbia senza conseguenze, ma quando a dirlo è una belva sanguinaria, un individuo spietato, disumano, un verme che ha divorato il tessuto più sano dello Stato, il rischio che ciò avvenga è altissimo. Anche perché “quelli lì” che “devono morire” non sono dei mafiosi di un clan rivale, ma i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Il suo funesto riferimento è al pm Nino Di Matteo, al procuratore aggiunto Vittorio Teresi e ai sostituti Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Ma anche a Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo.

Una sentenza di morte che arriva dopo gli attacchi, le accuse, gli isterismi delle istituzioni (soprattutto per il coinvolgimento del presidente Napolitano, a seguito delle telefonate relative al caso D’Ambrosio), le minacce dei mesi scorsi e perfino l’indagine della Cassazione a carico di Di Matteo, accusato di aver rivelato, in un’intervista a Repubblica, l’esistenza delle telefonate intercettate tra Napolitano e l’ex ministro Mancino, uno dei principali indagati nel processo sulla trattativa. Una sequenza devastante che non ha fermato e non ferma il lavoro della magistratura palermitana, ma che adesso richiede indubbiamente un intervento deciso e adeguato, finalizzato alla messa in sicurezza dei giudici. Per Di Matteo sì è già attivato, subito dopo la notizia giunta da Opera, il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, che ha chiesto al Viminale un rafforzamento della sua scorta (si parla anche di dotarla di un dispositivo antibomba, il Jammer, che disattiva tutti i radiocomandi nel raggio di qualche centinaio di metri). Per gli altri magistrati, che potrebbero essere ugualmente il bersaglio prescelto, non è dato sapere se e quali misure sono state previste.

Sul web, intanto, è subito scattato il giro allarmato di appelli e richieste di intervento al ministero dell’Interno, quello di un Alfano che tace e che sui giudici di Palermo non ha mai espresso pareri positivi. Il paradosso italiano, quello di una politica e di istituzioni che mostrano timidezza e indifferenza, proprio perché quegli uomini in toga, rinchiusi negli uffici e nelle loro vite blindate, stanno provando a capire chi sono i padri, i figli e i sopravvissuti di quel patto scellerato e indegno che costò la vita al giudice Borsellino, poco dopo la fine di Giovanni Falcone, anch’essa decretata da una mano non solo mafiosa. Hanno paura, sono terrorizzati e visibilmente infastiditi, allergici al proprio dovere, prima di tutto istituzionale, che richiederebbe anche solo una inutile solidarietà di circostanza. Almeno in questo, forse, sono sinceri, non fingono. Il loro silenzio è volutamente eloquente.

Se alcuni parlamentari del Pd hanno chiesto un intervento per scongiurare il pericolo che si ripetano situazioni drammatiche, il resto del partito, a partire dal capo del governo, tace. Tacciono i ministri, tace l’alleato Alfano, tacciono tutti quegli esponenti rigurgitati dalla vecchia destra, quelli che, con le facce impostate, un tempo fingevano di essere antimafia, cercando di mettere il cappello politico dentro al ricordo di un uomo dello Stato, un uomo libero come Paolo Borsellino. Ma il silenzio più pesante è sempre lo stesso, quello di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica, il presidente di diritto del Csm, il primo che dovrebbe esprimere solidarietà e subito attivarsi per tutelare quei magistrati minacciati dal boss più sanguinario della storia mafiosa. Quello che, insieme a parti deviate dello Stato, ha messo a ferro e fuoco l’Italia, ne ha squarciato le strade, la pelle, la vita.

Un boss irritato e nervoso, che non si trattiene, mostrando un senso di debolezza dal quale di solito i mafiosi escono in un unico modo: riorganizzandosi e colpendo, alzando il tiro. Soprattutto quando sono mafiosi come Totò Riina. Il silenzio di Napolitano costituisce l’emblema assoluto del paradosso italiano, nel quale un’istituzione di garanzia si mette contro un’altra istituzione di cui è persino a capo, la attacca, contesta un atto dovuto a cui sarebbe stato più giusto reagire mettendosi a disposizione e chiarendo, senza alimentare polemiche, senza contribuire a un isolamento terribile, nocivo.

Un presidente che tace e non solidarizza, non interviene, perché direttamente e personalmente coinvolto dal lavoro di quel magistrato, il quale tra l’altro non gli ha mai contestato un reato, ma solo chiesto di spiegarsi in aula. Perché se è vero che tutti sono uguali di fronte alla legge, una spiegazione è dovuta, soprattutto quando c’è in gioco un punto centrale della storia di una democrazia. Una democrazia che forse non ha imparato nulla e che non ha fatto abbastanza, dopo quel 1992, per spazzare via i paradossi, le presenze imbarazzanti, i volti vecchi, gli indifferenti e i complici. Ci siamo tenuti tutto e adesso viviamo l’angoscia di poter rivivere tutto, di dover assistere nuovamente alla solitudine blindata degli uomini giusti, a un isolamento nutrito da un silenzio velenoso e asfissiante che minaccia il nostro domani e intossica la nostra memoria.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org