Avrei voluto essere smentito, sarei stato felice di applaudire e perfino di inchinarmi, per la prima volta in vita mia, al cospetto di una qualsiasi istituzione di questo Stato, in segno di gratitudine estrema. Ma non accadrà e, in verità, non mi sono mai illuso che accadesse. Il 3 ottobre sta per arrivare e con esso giungeranno parole, resoconti giornalistici, celebrazioni, promesse. E retorica, tanta retorica, sputata dentro a un copione visto, liso, abusato, illeggibile. È trascorso un anno dal terribile naufragio di Lampedusa, dove le vittime accertate furono trecentosessantasei. Basta già contare le lettere che si impiegano per scriverlo, questo dannato numero, per rendersi conto delle dimensioni di una tragedia che non conosce fine. Basta sapere che quello, tra l’altro, è il numero delle vittime accertate e che ne mancano una ventina all’appello, inghiottite dal blu scuro di un mare che diventa tomba, senza lapidi né fiori.

Tomba di acqua e sale, sempre uguale nella sua forma di mostruosa bocca aizzata dagli ultimi cento anni di storia, dalla politica, dal crimine e dall’indifferenza. Ci sono finiti dentro anche altri corpi, come gli oltre duecentoquaranta siriani naufragati appena una settimana dopo quella tragedia che sconvolse Lampedusa e che costrinse il governo italiano e le istituzioni europee a volgere, per una volta, lo sguardo verso Sud, verso quelle acque nel quale, insieme ai corpi gonfi di bambini, donne e uomini che non avranno più nemmeno un nome, galleggiano le loro responsabilità. Ricordo ancora bene le file di cadaveri sulla banchina del porto di Lampedusa, i teli verdi e scuri come quella speranza assassinata e scolorita sull’asfalto grigio di un obitorio improvvisato, esposto all’occhio “delicato” di una società crudele e ipocrita.

Ricordo le parole, le facce scure che si sforzavano di rimanere contratte, tese, esattamente come accade a coloro che vanno ai funerali di persone sconosciute per le quali non nutrono alcun sentimento, ma che magari sono parenti di un collega o di un amico: li vedi lì, a far le condoglianze, ad ascoltare le omelie, tra uno sguardo all’orologio e un’occhiata alle navate e agli affreschi, giusto per ingannare il tempo, ma con la faccia sempre contrita, che non sia mai che scappi uno sbadiglio che ne smascheri l’indifferenza. Peccato però che quei morti sconosciuti di Lampedusa siano i nostri morti, di tutti, soprattutto di chi nulla ha fatto per evitare quel dolore, quell’olocausto che ancora oggi continua. Finita la passerella e terminate le parole di circostanza, si è proseguito con le solite chiacchiere sterili, senza avere le idee chiare e senza mai per un attimo assumersi le proprie responsabilità.

Abbiamo assistito a un orripilante gioco di scaricabarile tra Italia ed Europa, come se uno dei due soggetti potesse in qualche modo pensare di proclamarsi innocente. Nulla si è fatto per colpire, a livello internazionale, il traffico di esseri umani, nulla per aprire corridoi umanitari per chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni. L’unica soluzione partorita, ossia l’operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare, viene costantemente criticata, nonostante sia stata, al di là dei limiti, utile e importante quantomeno nel ridurre il numero di vite umane destinate agli abissi. Orrendo è anche il clima dentro il quale si celebra questo anniversario. Siamo tornati indietro. I morti continuano a finire tra le onde, ma la pietà di quei giorni del 2013 è solo un lontano ricordo.

In questo Paese senza memoria, che un tempo inviava soprattutto poveri, ignoranti e analfabeti in giro per il mondo, senza alcuna guerra a determinarne l’esodo, si è sviluppato un odio ingiustificato nei confronti dei migranti in fuga dai conflitti di cui siamo corresponsabili. La retorica del male vince sulla ragione e sull’umanità, grazie alla propaganda infame di chi, per un po’ di consenso politico, venderebbe perfino la madre (l’anima no, per il semplice fatto che non sanno dove trovarla). Così, dalle finte lacrime di Lampedusa, si è rapidamente passati alle invettive, alle bugie sulla solita storia degli immigrati che ci tolgono il lavoro, ai giovani disoccupati che sono a casa (perché loro non possono andare a lavare un cesso pubblico o andare a spaccarsi la schiena nei campi o accudire un anziano: sono impieghi poco chic, pensa che non ti danno nemmeno lo smartphone aziendale…).

Per non parlare delle immancabili offese razziste, delle magliette contro la presunta “invasione”, delll’ignobile equazione immigrato-terrorista-criminale e, infine, dell’allarme (falso e infondato, oltre che illegale) lanciato da Grillo e dalla Lega (sempre d’accordo su questi temi) sul rischio malattie. A tutto ciò fanno eco il silenzio e l’inerzia di un governo che non ha messo in campo una sola misura per riconoscere diritti, abolire una normativa (Bossi-Fini) disumana, risolvere la questione vergognosa della detenzione nei Cie, combattere chi specula e lucra sulla pelle dei migranti, costringere l’Europa a rivedere le norme di Dublino, attuando il permesso di soggiorno europeo per i richiedenti asilo. Buona parte dei mass media, dal loro canto, fanno da amplificatore a tutte queste oscenità, dando spazio quasi ogni giorno ai nuovi mostri, con le loro magliette, il loro vocabolario sempre uguale, i loro slogan frusti.

Ecco cosa è cambiato in un anno. Si è spostato il velo della retorica, rimettendo a nudo l’oscena crudeltà di un popolo di ex immigrati che, di fronte alla crisi del proprio benessere sfrenato, se ne infischia dell’umanità e della grande opportunità che un’accoglienza civile potrebbe consentire all’intero Paese. Tra qualche giorno si commemoreranno i morti, si farà qualche ora di silenzio, poi si tornerà a massacrare i vivi. E a non far nulla, se non promettere, incarcerare innocenti, rimpatriare disperati, continuare a riempire il cervello pigro degli italiani con le solite bugie e con le paure che tanto arricchiscono imprese della sicurezza e cacciatori di consenso politico. Era prevedibile. D’altra parte, si sa, il 3 ottobre dura solo un giorno.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org