Uno scenario inquietante e un vuoto gravissimo su cui i pm palermitani che indagano sulla trattativa Stato-mafia stanno cercando di fare luce. Questo è quanto emerge da un articolo di Francesco Viviano pubblicato su Repubblica nei giorni scorsi e relativo a una importante informativa dei carabinieri rimasta chiusa in un cassetto per dieci anni e non pervenuta (fino a poche settimane fa) alla magistratura. L’informativa, che il giornalista di Repubblica ha potuto leggere, contiene i nomi di insospettabili fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, il boss di cosa nostra ancora latitante. Si tratterebbe di “colletti bianchi”, persone influenti dell’alta borghesia trapanese, tra i quali due primari, tre imprenditori, un commercialista e un gioielliere.

Insieme a loro, altre persone che hanno aiutato il boss, facendo da postini e portando i suoi messaggi agli altri capimafia e alle altre cosche della Sicilia. Un gruppo di incensurati, dunque, mai sfiorati finora dalle inchieste che, negli anni, hanno colpito e pian piano smembrato la rete di complicità di cui il criminale più ricercato d’Italia si serve per coprire la sua latitanza e nel frattempo continuare a esercitare il proprio comando.

Nomi e cognomi rimasti incredibilmente ignoti agli inquirenti, per dieci anni. Fino a quando l’informativa, che si basa su informazioni provenienti da una fonte definita “attendibilissima”, non è giunta nelle mani di Teresa Principato e Nino Di Matteo, consegnata dall’ex comandante dei carabinieri di Marsala e poi di Palermo, il generale Nicolò Gebbia, oggi in pensione. Interrogato da Di Matteo, egli avrebbe raccontato di aver consegnato il documento, prima di lasciare la Sicilia, all’allora generale della Regione Carabinieri Sicilia, Gennaro Niglio, morto poi in un incidente stradale nel 2004. Per tale ragione, l’informativa sarebbe rimasta ferma e sconosciuta a chi dà la caccia a Denaro.

Tra l’altro, nella stessa sarebbe stato esplicitamente suggerito di non rendere note le informazioni alle forze dell’ordine allora impegnate nelle indagini nel trapanese, per evitare fughe di notizie che avrebbero potuto favorire il boss, lasciando quindi intendere che all’interno delle forze di sicurezza dello Stato si nascondessero altri complici e talpe. Un quadro, ripetiamo, inquietante, soprattutto se si pensa che non avere coscienza di nomi così importanti e a quanto pare potenti, per ben dieci anni, significa non riuscire, nonostante l’intensa attività dei magistrati e delle forze in campo e i tanti arresti eseguiti negli anni, a mettere davvero in ginocchio il sistema di protezione costruito dal boss. Significa scalfirlo, indebolirlo, ma non abbatterlo del tutto.

Ecco perché la notizia data da Repubblica ha un impatto dirompente o almeno dovrebbe averlo in un Paese che non si occupi di mafia solo quando non ha nient’altro di cui parlare. Ed ecco perché adesso è importantissimo appurare, come stanno cercando di fare i pm palermitani, come mai in questi dieci anni l’informativa sia stata tenuta nascosta e perché sia venuta a galla solo oggi. Anche perché, oltre alla rete di fiancheggiatori di Messina Denaro, essa contiene una informazione importante che offre altri spunti sui rapporti tra mafia e politica ai tempi della prima Repubblica. Si parla infatti anche del sequestro del suocero di Nino Salvo, uno dei due fratelli (legati alla mafia) a capo dell’esattoria siciliana degli anni ‘70-’80.

Luigi Corleo, questo il suo nome, venne sequestrato il 17 luglio 1975 su ordine di Riina e di lui non si ebbero più tracce. Si chiama lupara bianca ed è uno dei metodi più utilizzati dalla mafia. Secondo la fonte su cui si basa l’informativa, il corpo sarebbe stato sepolto in una campagna di uno dei fiancheggiatori di Messina Denaro. Il sequestro fece infuriare Stefano Bontate e Tano Badalamenti, boss legati ai Salvo, che reagirono uccidendo numerosi alleati dei corleonesi. Il generale Gebbia, in proposito avrebbe rivelato di avere saputo che Nino Salvo avrebbe chiesto a Giulio Andreotti, allora premier, di dare un permesso di qualche giorno a Badalamenti, all’epoca al confino nel nord Italia, per farlo tornare in Sicilia per risolvere la questione e liberare Corleo.

Andreotti avrebbe rifiutato facendo infuriare i Salvo e, di conseguenza, anche Bontate e Badalamenti. Una frizione sulla cui portata non si ha contezza, ma che potrebbe servire per rileggere alcuni avvenimenti accaduti successivamente. Insomma, di spunti questa informativa ne dà molti, ma soprattutto consegna ai magistrati un elenco di nomi nuovi, con responsabilità precise che vanno accertate, così come va accertata la ragione del ritardo gravissimo con cui questo documento è arrivato in Procura. Nell’attesa resta l’inquietudine tipica di un fatto inspiegabile ragionando con la logica di una nazione normale. Quella che l’Italia non è. E non è mai stata.

Redazione –ilmegafono.org