Alla fine di questo viaggio dentro una storia che purtroppo non conosce mai salti in avanti realmente positivi, quello che rimane è un vuoto. Un enorme vuoto, una voragine dentro la quale si nascondono pecche, complicità, violenze, verità, responsabilità e silenzi. Una voragine nella quale il diritto e la dignità precipitano, lasciandoci la terribile risposta di un tonfo sordo. In questi 17 anni, di risposte simili si sono riempite le campagne e le strade di Cassibile e di questa provincia, le aule comunali, le poltrone dei sindaci, le stanze prefettizie, le camere sindacali, le aule delle procure, le sedi di molte associazioni, le canoniche e i banchi di tante parrocchie, gli uffici vescovili. Questo vuoto non è sinonimo di silenzio o di totale e generale inerzia, ma è l’insieme di errori, mancanze, incompetenze, ignavia, ipocrisia, pochezza. Lo stiamo vedendo anche oggi, che questo vuoto è ancora più grande, nonostante il baccano, il coro irritante, le sterili polemiche a mezzo stampa, nelle quali tutti attaccano tutti e nessuno dà risposta alla domanda: “Cosa si farà con i circa 300-350 braccianti che non entreranno nel costruendo campo da 60 posti?”.

“Evidentemente si arrangeranno”, questa sarebbe la sola risposta sincera di tutti gli attori coinvolti, che invece strepitano, si azzuffano, difendono le proprie posizioni con il dito indice sempre teso in avanti. Il vuoto pensano di colmarlo a parole o con quel pizzico di umana solidarietà che una parte di questa città e provincia e qualche ong straniera non hanno mai fatto mancare. Cibo, abiti, coperte, scarpe. Tutte cose utili a permettere ai braccianti di resistere ma non di esistere. Totalmente inutili, invece, rispetto a quella angosciante esigenza di diritti che è incredibile che in venti anni nessuno abbia avuto mai davvero l’urgenza di soddisfare. Addirittura, adesso, in questo bel miscuglio di voci, in questa orgia di comunicati stampa che provoca orgasmi a molti media locali, prevalgono posizioni grottesche, negazionismi, rivisitazioni della realtà che distruggono anche quei pochi elementi di verità (peraltro scontata) che potrebbero emergere. Il silenzio delle imprese e delle associazioni di categoria è stato interrotto qualche giorno fa da un imprenditore di Cassibile, non uno qualsiasi, ma l’ex presidente della Confederazione Italiana Agricoltori, oggi vice-presidente nazionale, nonché ex assessore alle politiche produttive della Giunta comunale attualmente in carica a Siracusa.

Parliamo di Fabio Moschella che, dopo aver giustamente ribadito che i comitati e quelli che ho più volte definito capipopolo sono semplicemente minoranze che agiscono a fini politici (per l’esattezza quelli di Fratelli d’Italia), si è lasciato andare a una riflessione sulla questione Cassibile. Qualcosa che, se non fossimo davanti a una tragedia, sarebbe degno di una farsa divertente, di un’opera grottesca esilarante. Lui, imprenditore agricolo di Cassibile, ci racconta che “la figura del caporale a Siracusa è pressoché scomparsa” e che “le imprese hanno con i propri dipendenti rapporti continuativi o abituali, vengono assunti per chiamata diretta, senza intermediazioni”. Questa certezza Moschella la fa derivare dall’esperienza delle lotte bracciantili degli anni ’70 e da un percorso virtuoso delle imprese sul piano dei contratti di assunzione e del rispetto dei diritti. Insomma una difesa di parte, nulla di originale, che però rischia di diventare un oltraggio alla condizione di subordinazione e schiavitù che i braccianti vivono sulla propria pelle, in luoghi che evidentemente il nostro imprenditore non frequenta.

Eccolo il vuoto di cui si diceva, uno dei tanti vuoti. Un vuoto nel quale la verità viene rimodulata da lontano, a tavolino, sui giornali, senza contraddittorio e senza le domande necessarie. Un vuoto che nega l’evidenza dei fatti, quella che si può toccare con mano al mattino o ascoltando le parole dei braccianti, guardando le loro buste paga e confrontandole con i pagamenti che ricevono e con le ore effettivamente lavorate. Un vuoto che ignora la verità, segno che con i braccianti siamo in pochi a parlarci. Fino a stamattina un paio di loro mi hanno raccontato le cose di sempre. Caporali, contratti stipulati con aziende che poi non li rispettano, né per paghe né per turni. Pagamenti in contanti o con postepay, mai con addebito bancario. Questa verità evidentemente non piace al vice-presidente della CIA, che preferisce vivere nel suo mondo immaginario, fatto di certezze artificiali, che non disturbano. Da quando ho iniziato a occuparmi di Cassibile questo atteggiamento di sicumera immotivata da parte delle imprese, che sfocia in un negazionismo di parte, è sempre stato il primo problema. Negare l’evidenza senza avere evidenze è un atto sfrontato e, vista la posta in gioco, persino immorale. Non ho ragione di dubitare, conoscendo Moschella, del fatto che lui rispetti le regole, ma è inaccettabile che ci si spinga a parlare a nome di tutti.

Perché gli imprenditori e le associazioni datoriali dovrebbero piuttosto raccontarci della loro incapacità di contribuire economicamente all’accoglienza dei braccianti o parlarci ad esempio dei subaffitti, dei terreni affidati ad altre aziende rispetto alle quali non vengono eseguiti i dovuti controlli sul reclutamento della manodopera, oppure parlarci di aziende che scelgono trasportatori meno virtuosi di altri, e così via. Tutto questo non emerge e finisce nel vuoto di un dibattito senza alcuna concretezza, dove ciascuno dice la sua senza mai dimostrare da dove deriva la propria certezza, né dove si nasconda la propria fonte. Cassibile è una voragine nella quale precipita spesso anche il buonsenso, così come precipitano gli eroi di un giorno, si bruciano rapidamente gli incensi di un mattino. In quel vuoto, così, sono finite le autocelebrazioni dei sindacati, che avevano comunicato al mondo intero, in pompa magna, di aver provveduto a dare riparo ai braccianti (meno di una trentina) sgomberati dieci giorni fa dall’accampamento di fortuna di fronte al borgo. Avevano trovato un “agriturismo”, che poi agriturismo non era, ma era un magazzino agricolo.

Dove sono ora quei lavoratori? Non ci sono più, la maggior parte si è spostata per lavorare. Dove? Qualcuno è passato dalla parrocchia di padre Carlo, qualcun altro ha trovato posto a casa di amici, altri sono in mezzo alle campagne o “dentro le grotte”, chiaramente vicino ai posti in cui lavorano. Ossia nei pressi di Cassibile. Lavorare, già, questo è un altro dei concetti che finiscono spesso nel vuoto. Fino a quando non si parlerà di lavoratori, di braccianti, senza usare come premessa la loro origine non italiana, non cambierà mai nulla. A volte penso che se fossero stati operai italiani, braccianti italiani, non sarebbero mai rimasti per quasi venti anni a vivere questa situazione. Non avrebbero trovato l’ostilità di una parte dei cittadini del borgo, l’indolenza dei sindacati o l’indifferenza della politica e delle istituzioni. Soprattutto è probabile che la società civile di questa città non avrebbe dormito serena, avrebbe solidarizzato, organizzato manifestazioni continue, avrebbe pianto per ogni notte che questi lavoratori avrebbero passato all’addiaccio, in mezzo al fango, sotto la pioggia, sotto i colpi del vento umido e gelido. Sicuramente sarebbero state attivate indagini, spiccati mandati di arresto per gli sfruttatori, avremmo visto volanti e gazzelle al mattino a Cassibile a chiedere conto agli “autisti”.

I comitati del posto avrebbero parlato con i braccianti, si sarebbero intestati la battaglia per quei diritti, le forze politiche avrebbero fatto a gara per riempire quel vuoto e trasformarlo in voti, i voti di quei soggetti per i quali avrebbero cercato di trovare soluzioni o rivendicare diritti. Invece no. Sono braccianti, ma prima di tutto migranti. E, dettaglio non indifferente, non votano. Hanno la pelle scura, olivastra o nera. Sono africani, o semplicemente niuri, etichettati così come una massa informe e misera, che serve ma non piace, perché richiama tutti gli stereotipi fasulli che decenni di arretratezza culturale e anni di retorica securitaria e razzista di questo Paese hanno prodotto. Sono neri, poveri, sono stranieri. Su di loro si compie il vuoto e si scarica anche l’oscenità culturale, spesso recondita e inconscia, che induce a pensare che possano sopportare di tutto, perché vengono da posti immaginati come tribali, hanno affrontato viaggi atroci, quindi resisteranno, ce la faranno sicuramente. E allora basta portar loro almeno da bere e da mangiare, coperte, tende, perfino bagni chimici, acqua e luce, in modo che la loro vita tra fango e zanzare possa essere un minimo più dignitosa e, al contempo, la nostra coscienza possa sentirsi più pulita.

Senza scomodare ideologismi di maniera, risulta evidente che questi lavoratori sono anche vittime di quella logica occidentale da colonizzatori che resiste, purtroppo anche dentro chi pensa di sedersi dalla parte degli sfruttati. Che per fortuna nostra non sono violenti, non sono irascibili. E sono stremati dal bisogno. Altrimenti ci guarderebbero con odio giustificato e forse reagirebbero come dovrebbero, non trovando più quei canali che i braccianti italiani degli anni ’70 trovarono in sindacati che alla grammatica preferivano la lotta e in partiti che ai comunicati stampa preferivano la stessa lotta. Senza compromessi, senza paure. Anche e soprattutto davanti a chi negava, a chi affermava che i fenomeni illegali e di sfruttamento non esistessero. Allora chi lavorava nelle campagne non era “siciliano”, “calabrese”, “veneto”, “tunisino”. Allora erano chiamati tutti lavoratori. Tutti braccianti. Che si confrontavano, che venivano sindacalizzati, con avanguardie che iniziavano ad accettare l’idea di rinunciare alle giornate di lavoro per scioperare, per chiedere diritti. Si può fare anche oggi, ci sono braccianti disponibili, hanno provato a farlo anche in altre zone d’Italia, dove la situazione è peggiore, di gran lunga, per numeri e impatto, rispetto a Cassibile.

La si smetta allora di sperare nelle imprese, nella loro autocoscienza, la si smetta di credere che il problema sia l’assenza degli altri comuni o di pensare che quanto sta facendo il Comune di Siracusa (un campo per nemmeno un sesto dei braccianti che arriveranno) possa costituire un “modello”. La si smetta soprattutto di chiamarli migranti. Sono lavoratori, sono braccianti che vivono e lavorano in Italia da anni, spesso anche tanti anni. Sono persone che hanno anche famiglia, spesso hanno persino una casa in cui stare, ma sono costretti a viaggiare per lavorare. La parola “migrante” o “straniero” può valere solo perché indica che hanno meno tutele, in quanto non hanno qui i genitori che possono aiutarli ma anzi devono mandare qualche soldo anche a casa, nei paesi di origine. Come facevano i nostri emigranti. Allora, poiché le parole sono importanti, usiamole correttamente. E usiamone meno sui giornali e più nell’azione quotidiana. Perché questo vuoto si colma solo se pensiamo che, ogni giorno, a Cassibile ci sono dei lavoratori che vivono in condizioni di negazione di diritti essenziali.

Dobbiamo pensarci tutti i santi giorni e non addormentarci sereni, ma agire. Come? Intanto evitando di negare la realtà. Poi facendo tutto quello che serve per collegare in modo virtuoso domanda e offerta, per abbattere caporalato e illegalità, e soprattutto decidere senza preoccuparsi della voce gracchiante di una minoranza politica di residenti. A tal proposito, c’è una parte ampia di cassibilesi (che sono oltre 6mila e non quattro gatti) che dovrebbe ribellarsi, non attaccando chi racconta dei fatti o ne scrive, ma isolando coloro i quali si ergono a rappresentanti di una comunità intera, mostrando una faccia spaventosa, razzista, politica. Cassibile non è un paio di capipopolo, non è un comitato, non sono 800 firme. Cassibile è anche altro, è molto altro: è la scuola, sono le persone che ho incontrato, semplici, umane, solidali. Dov’è la loro voce alternativa? Dove sono quelli che non la pensano come chi senza alcun diritto dice di rappresentare tutti i cittadini del borgo? Uscite allo scoperto, rivendicate la vostra diversità, mettete a tacere i corvi.

Anche la mia categoria, infine, dovrebbe fare la sua parte, smettendo di fare, come accade talvolta, i cani da riporto, ricordandosi invece di mordere, di fare da guardia alla verità, di indagare. Non servono soldi per questo, né inserzioni pubblicitarie. Serve solo dignità professionale. Serve non dimenticarsi il compito di quella che prima di essere una professione è una missione civile. Le parole di verità e l’inchiostro a volte sono l’unico modo utile a riempire il vuoto, purché quel vuoto venga prima liberato da tutte le ingiustizie e le bugie che lo inquinano. Altrimenti saremo sempre qui, allo stesso punto. Per chissà quanti altri anni ancora. Dentro un vuoto che ruba diritti, viola umanità e tutela negligenze. Un vuoto che rimane immutato e che non si nasconde di certo murando un casolare con qualche tocco di malta, blocchetti di pietra e quintali di ipocrisia.

Grazie a Borderline Sicilia per la foto che mi ha concesso di pubblicare in evidenza a questo capitolo finale.

MP