La via Nazionale taglia in due Cassibile. Una estesa vena di cemento, un rettilineo lunghissimo che, a nord, conduce a Siracusa, mentre a sud prosegue verso Avola. Per un tratto, scorre quasi in parallelo con il tracciato autostradale, ma per buona parte si sporge sulle campagne della zona, sulle colture che fanno da scenario al via vai di auto, camion, furgoncini e moto. Nell’abitato, invece, si affaccia su case e attività commerciali, su bar, qualche pizzeria e sulla piazzetta dominata dalla chiesa. Prima di proseguire verso sud, infine, saluta l’antico, originario borgo del marchese, con la sua chiesa affrescata, le case padronali, gli alloggi per i lavoratori. Un luogo molto suggestivo, purtroppo non valorizzato e lasciato in abbandono, a ricordare che un tempo Cassibile, con le sue terre, le bellissime aree naturali, il sole che splende sui campi e il mare a due passi, doveva essere un bel posto. Oggi, la modernità ha messo ai margini quella bellezza. E le strade di Cassibile, anonime e urbanisticamente non proprio affascinanti, raccontano storie quotidiane, tra le quali quelle di miseria e ingiustizia, di una violenza che ha mille volti e vittime troppo spesso silenziose.

La violenza è qualcosa che Cassibile ha conosciuto, suo malgrado, negli anni passati. Quando ero poco più che un bambino, Cassibile appariva come un luogo pericoloso, da evitare. Lo sfioravo quasi ogni domenica per andare nella zona sud della provincia. Era una presenza che faceva la sua comparsa lungo il primo tratto di autostrada Siracusa-Gela, che, fino al 2008, era attivo soltanto fino a Cassibile. Da lì si usciva e si proseguiva verso sud lasciandosi alle spalle il borgo. Perché Cassibile faceva paura? Non per colpa sua, ma per colpa di due storie di violenza feroci. Una strage di mafia, una sparatoria in pieno giorno, dentro il bar Oasi, al centro della frazione. Tre morti, una serie di colpi e proiettili che seminò il panico. Era accaduto il 18 aprile 1992, il sabato di Pasqua, alle 12.30, con il borgo in festa e in piena attività e il bar popolato dai clienti, terrorizzati.

Poi, qualche anno dopo, inizia una serie di delitti, perpetrati nell’area. Un serial killer, un mostro che per anni non si è riusciti a incastrare. Un uomo del luogo, acciuffato nel 2010, quando era già pensionato, dopo otto omicidi commessi tra il 1997 e il 2004. Una macchia che Cassibile ha dovuto subire per anni. Un incubo finito dopo molto tempo. La violenza duplice, quella che produce vittime e che si appiccica all’immagine di un luogo. Una violenza locale, siciliana, autoctona, non esportata. Ma qualcuno da queste parti ha la memoria corta e allora decide di urlare che l’immagine di Cassibile non è sporcata dalla sua storia, né dai legami di alcune imprese con i clan che gestiscono diversi passaggi dell’intermediazione agricola. Qualcuno a Cassibile preferisce pensare che l’onorabilità del borgo sia sporcata da chi è vittima di altra violenza. Sì, perché le strade di Cassibile hanno raccontato molte altre storie meno note, la maggior parte rimaste nel silenzio dell’impunità e delle ingiustizie che in pochi hanno ascoltato.

Sono storie di violenza, storie nelle quali i migranti sono le vittime sacrificali di un sistema indecente, le cui leve sono spinte da più manovratori, alcuni più raffinati e furbi, altri rozzi e spietati. Una violenza che ha molte facce, forme, tempi, modi. Ne ho ascoltate tante di queste storie, quando il dolore era ancora caldo, quando i segni erano ancora visibili. La prima racconta di un rogo, un esercito di fiamme che ha marciato sui cellophane che facevano da tetto e sulle tende, sui ripari di fortuna dei lavoratori. Accampati dentro un campo abbandonato, o meglio un terreno di proprietà del marchese Silvestro Gutkowski Pulejo Loffredo, scomparso nel 2018. Lavoratori accampati sotto gli alberi, sulla terra umida di questo sud, tra sterpaglie, fango, foglie e plastica. Un giorno di giugno del 2006, quando siamo a fine raccolta, il fuoco divampa e per pura fortuna non ci scappa il morto. Arrivarono media, ong, associazioni. Venne Medici Senza Frontiere, che organizzò un campo e un presidio sanitario. Qualcuno di noi (purtroppo nessuno di quelli che oggi è chiamato a decidere o fare qualcosa), passò la notte in quel campo.

Sotto una tenda di MSF, conobbi un giovane marocchino, appena 18enne, disperato. Scuoteva la testa, dopo aver pianto a lungo. Riuscii a farmi raccontare la ragione della sua disperazione. Aveva perso circa 500 euro nel rogo. Li aveva nascosti sotto l’albero che gli faceva da dimora. L’incendio, doloso, era divampato mentre lui era al lavoro. Aveva incenerito tutto, anche i risparmi che aveva messo da parte in settimane di duro lavoro. Era irregolare, ma aveva bisogno di soldi da mandare a casa. In più, il suo datore di lavoro gli doveva ancora due settimane di paga. Ma non rispondeva più e a chi chiamava per chiedere conto e ragione rispondeva che lui non conosceva nessun lavoratore con quel nome. Negava, come fanno in molti a vari livelli. In poche parole, lavoro gratuito. Con beffa finale. Insieme a Emergency Siracusa, facemmo una colletta, riuscimmo a raccogliere quasi l’intera cifra. Ricordo ancora questo ragazzino che, davanti al gruzzolo che avevamo in mano, rifiutava. Scuoteva la testa, dicendo che voleva i soldi del suo lavoro e che non voleva regali. Si chiama dignità. Dovemmo spiegargli che non si trattava di un regalo, ma di un risarcimento della parte sana della città per il dolore che gli avevamo procurato. Accettò dopo molte insistenze.

In quei giorni accadevano tante altre forme di violenza. Molto più raffinate. Che sono andate avanti per anni. Arresti frequenti di braccianti, soprattutto nelle settimane finali della stagione. Per furti di prodotti alimentari da qualche euro (ossia per fame). O ancora peggio, migranti irregolari portati in caserma per verifiche che poi portavano al decreto di espulsione, quasi sempre il sabato mattina. Arrivavano chiamate anonime alle forze dell’ordine. “Ci sono dei ‘clandestini’ in quel campo”. Così venivano attivati i controlli e via: in questo modo, il sabato mattina non ci si poteva presentare al caporale o al padrone per ricevere la paga settimanale. Un diabolico sistema per risparmiare sul costo del lavoro. Ma non c’è stato solo lo sfruttamento del lavoro a Cassibile.

Altra forma di violenza era quella che riguardava gli “ospiti” del Cara, centro di accoglienza per richiedenti asilo, gestito dall’Alma Mater. Un centro in mano a un sacerdote, padre Arcangelo Rigazzi, e a un imprenditore, Marco Bianca, rinviati a giudizio e poi archiviati per insufficienza di prove. Marco Bianca, in particolare, ha gestito a lungo centri di accoglienza ed è finito in altre indagini e numerose polemiche. Una volta, in una intercettazione della Gdf, emersero i suoi rapporti con alcune istituzioni governative, che lo avevano avvisato di una ispezione ministeriale a sorpresa. Molti dei centri in Italia gestiti da Alma Mater o dal consorzio Oasi di cui faceva parte, sono stati coinvolti da accese polemiche, per le condizioni in cui erano tenuti i migranti e non solo.

Un episodio chiave lo posso raccontare da diretto testimone, quando ero un giovane giornalista di provincia. Venni chiamato da un amico il quale mi informava che una ottantina di ragazzi dormiva sotto le fronde degli alberi di carrubo in un terreno dietro la stazioncina ferroviaria di Cassibile, quasi di fronte al Cara (che oggi per fortuna non esiste più). Li aveva scoperti per caso. Andai lì, la prima volta nel primissimo pomeriggio di una giornata piena di sole. Trovai alcuni di loro che cucinavano in un fornellino da campo davanti alla stazione. Mentre parlavo con alcuni di loro, arrivarono i Carabinieri, che mi chiesero che cosa volessi. Dissi che ero un giornalista. Con me c’era anche mio padre, giornalista anche lui, che mi aveva accompagnato. Ricordo che ci domandammo perché non chiedessero a quei ragazzi la ragione dell’essere fermi lì, abbandonati da tutti. Ma di questo, di come la legge funzionava a Cassibile, parleremo nei prossimi capitoli. Dopo aver salutato i gendarmi zelanti, seguii il binario ferroviario, camminando ai lati. Passò un treno e dovetti attaccarmi alle recinzioni che separavano la ferrovia dalla campagna. Una follia pensare che ottanta ragazzi facessero quel tragitto pericoloso, ogni giorno.

Al terreno si accedeva da una ampia apertura del recinto. Lo scenario era avvilente. Materassi piazzati sotto gli alberi, stoviglie, spazzatura. I carrubi diventavano stanzoni dove ripararsi dal sole di luglio. Un sole cocente. In gran parte erano eritrei, tutti appena entrati in possesso dell’asilo politico. Rifugiati aventi diritto. Tutti ospiti del Cara di Cassibile. Qualcuno, dal centro, avrebbe dovuto chiamare l’Unhcr, avvisare dell’esito positivo delle domande, in modo che ciascun rifugiato potesse essere inserito nel programma nazionale asilo. I rifugiati così avrebbero conosciuto la loro destinazione, avrebbero ricevuto i soldi per il biglietto del treno e sarebbero partiti verso una nuova vita. Invece no. Perché i numeri in emergenza non li controlla nessuno e quindi, se un centro è sovraffollato, può giostrare quei numeri come meglio crede. O più precisamente, come meglio conviene. Non denunciare le dimissioni di 80 ospiti, significava continuare a percepire i soldi che quotidianamente lo Stato riconosceva al Cara per la gestione di quegli ospiti. E fare spazio, al contempo, per farne entrare altri 80. E prendere anche quei soldi.

Lo stesso meccanismo che avevo scoperto anni prima in una inchiesta sulla gestione illecita di alcuni canili a Siracusa. In quel caso i carabinieri scoprirono che, in alcune strutture, molti cani venivano soppressi e seppelliti, senza che i gestori ne denunciassero la morte, in modo da poter accogliere altri cani, facendo leva sul sovraffollamento che annacqua il controllo dei numeri, e ricevendo la diaria giornaliera sia per i nuovi che per quelli defunti. Questa volta, però, non si trattava di cani e di cadaveri occultati, ma di esseri umani abbandonati al loro destino. A raccontarmi tutto fu S., un eritreo professore di matematica al quale era stata sterminata la famiglia. “Per fortuna i miei sono tutti morti e non potranno mai vedere in che condizioni sono costretto a vivere”, mi disse. Me lo disse davanti ad alcuni di loro costretti a pranzare usando come piatto comune un sacco nero di solito usato per l’immondizia. S. aveva la tosse, una brutta tosse. Lo accompagnammo in farmacia, comprammo dei farmaci che un medico ci prescrisse. Mi disse che, appena guarito, in qualche modo avrebbe provato a partire. Qualche giorno dopo vidi che stava meglio. Qualche giorno dopo ancora, non lo vidi più. Non ne ho più saputo nulla.

Nessuno è mai stato punito per tutto questo. Almeno non dalla giustizia. Come non sono state punite altre violenze. Come ad esempio i pestaggi compiuti dai giovani balordi che a Cassibile vomitano razzismo verso i migranti. Successe nel 2010 a un ragazzo eritreo, che mi ritrovai in macchina, con ancora i segni delle ferite, per accompagnarlo a Siracusa in un posto più sicuro, al riparo da ritorsioni. Perché? Era stato picchiato in quanto, secondo il suo aggressore, figlio di un uomo conosciuto nella frazione, aveva rivolto uno sguardo di troppo alla sua fidanzata. Aveva preso botte ma aveva deciso di denunciare. Paola Ottaviano, sua legale, era riuscita a far valere i diritti di questo ragazzo. Che poi, trascinato dalla necessità di proseguire la sua vita, lasciò Cassibile. Così, quando, qualche anno dopo, con i tempi della giustizia italiana, si arrivò a un’altra udienza, molto importante, lui non era più rintracciabile. E la violenza rimase impunita. Come impuniti sono rimasti altri pestaggi.

Una sera di maggio di due anni fa, a prenderle fu un giovane bracciante, un ragazzo docile e tranquillo, preso di mira da un gruppo di ragazzini, mentre se ne stava tranquillo con il suo cellulare a discutere con gli amici lontani. Picchiato e insultato. Tornato al campo con la faccia gonfia e tanta paura. Compresa quella di denunciare, per timore di ritorsioni. Non sono casi sporadici. Come non lo sono le truffe ai danni dei braccianti, che spesso ricevono nei loro accampamenti di fortuna la visita di gaglioffi locali che vendono loro ciclomotori scassati o telefoni usati, talvolta rubati o difettosi. Raggirati, truffati, pestati. A questo si aggiunge la rabbia di chi non li vuole, di chi dà ascolto allo starnazzante coro dei capipopolo da balera, quelli che vogliono costruire la paura, che usano i migranti per solleticare lo stomaco di una parte della popolazione e vomitare una rabbia insensata nei confronti dei lavoratori stranieri che contribuiscono ad arricchire le tasche di proprietari terrieri, commercianti, professionisti della zona. La verità è che i migranti, a Cassibile, non possono esistere al di fuori della catena schiavista. I braccianti, da lavoratori divengono capro espiatorio, nemico da colpire, da respingere. Ma solo a parole e solo quando i campi sono già pieni o a fine raccolto. Cioè quando non servono più. O ne servono meno.

La violenza a Cassibile ha il volto dell’indifferenza, della rabbia, dei pestaggi, dei rabbiosi capannelli che l’anno scorso, a metà luglio, hanno circondato l’accampamento dei braccianti. Una folla riottosa che ne voleva l’espulsione dal territorio. Motivo? Un migrante, con problemi psichici e assolutamente inoffensivo, era stato spinto da qualcuno ad andare in giro nudo e aveva attraversato il borgo senza niente addosso.  Sempre, naturalmente, quando la stagione della raccolta era praticamente agli sgoccioli. Uno scandalo per la morale di Cassibile. Un oltraggio al pudore in un luogo in cui un corpo umano nudo è più oltraggioso e scandaloso di anni di sfruttamento, ghettizzazione, violenza nei confronti di esseri umani che si spaccano la schiena nei campi e che nessuno vuole accogliere quando oltre alle braccia forti fanno la comparsa anche i cervelli, i cuori, i volti, i corpi. Queste sono solo alcune delle storie di anni che hanno prodotto il racconto costante di una violenza multiforme che avrebbe bisogno di centinaia di fogli per poter essere narrata tutta.

Una violenza che è appiccicata alle baracche, agli stracci, ai rifiuti, alle file di braccianti assonnati che al mattino escono lentamente dalle campagne, lungo la via Nazionale, e aspettano l’arrivo del caporale e del suo mezzo. Alla luce del sole, senza nessuno che disturbi il tragico spettacolo schiavista che si svolge su un lungo rettilineo dentro la frazione di una città che, pochi chilometri più a nord, accoglie i turisti con un cartello: “Siracusa, città dei diritti umani”.

Ci vediamo venerdì 5 febbraio alle ore 18.30 con il terzo capitolo. A presto.

MP