Sono venti gli anni che ci separano da quello scoppio, da quella voragine aperta nel cuore di quell’Italia che cercava di liberarsi dalla stretta unta e appiccicosa della mafia, riponendo ogni speranza in una coppia di magistrati e nel loro pool, baluardo indispensabile piantato sul fronte più caldo, quella Palermo depredata, umiliata, marchiata con il sangue indelebile di centinaia di uomini e di donne che erano stati costretti a fermarsi da un muro di piombo e di silenzio. La Palermo stuprata dal cemento, stravolta nei suoi connotati, inquinata da simboli opprimenti di un potere misto, dove i confini tra Stato e anti-Stato si erano dissolti sotto i colpi di scure dei corleonesi, del loro fidato sindaco Vito Ciancimino e dei suoi sodali. Una città figlia di un’Italia che aveva assistito indifferente alla fine dei suoi uomini migliori, da Chinnici a La Torre, Costa, Cassarà, Giuliano e, soprattutto, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un’Italia che aveva assistito alle prime forti reazioni della società civile proprio dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, per poi vivere un riflusso, mentre un gruppo di magistrati indagava, combatteva ogni giorno contro nemici esterni e interni alla loro istituzione.

Giovanni Falcone era un magistrato diverso dagli altri, aveva un carisma che traspariva dai suoi occhi, da quello sguardo che accompagnava un sorriso sicuro, forte. Almeno è questa l’immagine che ho ogni volta che mi viene da scrivere o pronunciare il suo cognome. Ogni volta che ne sento parlare. Un giudice che è riuscito a capire a fondo, da siciliano, il fenomeno mafioso, costruendo gli strumenti necessari a combatterlo e sconfiggerlo. Strumenti tecnici, giuridici, di indagine, collegati ad una ampia visione culturale hanno consentito a Giovanni Falcone di avvicinarsi alla verità, a svelare quello che è il potere che domina questo Paese e che si nutre di connivenze, corruzione, complicità, convenienze. Aveva capito come fronteggiare la mafia programmandone la sua fine, la sua distruzione. Eppure, ha trovato pochi compagni di viaggio in questa sua lotta. Perché se c’è un uomo che più di tutti ha subito l’isolamento, gli attacchi, le ingiurie questo è stato Giovanni Falcone.

Un uomo solo, appoggiato da pochi colleghi e amici, il quale ha dovuto combattere, prima che con la mafia, contro i nemici interni, contro gli apparati di uno Stato che aveva paura che si scoprissero le sporcizie nascoste dentro le proprie stanze. Ha dovuto difendersi dall’invidia di colleghi che vedevano, nel suo carisma e nella sua esposizione, un tentativo narcisista di primeggiare, di mostrarsi. Invece, Falcone era un grande magistrato ed un profondo intellettuale, che aveva compreso che bisognasse parlare di mafia anche al di fuori delle aule e delle inchieste, perché era necessario, perché tutti dovevano acquisire una coscienza, dovevano capire come la mafia entra nel tessuto sociale e come dalla mafia è possibile difendersi. Soprattutto, Falcone credeva fortemente nello Stato, nelle istituzioni, coglieva l’importanza primaria della loro libertà ed indipendenza, così come coglieva il valore del corretto utilizzo dei collaboratori di giustizia.

Ricordo che nel libro-intervista con Marcelle Padovani (“Cose di cosa nostra”, 1991), egli espresse il suo dolore per come il primo vero “pentito” di mafia, Leonardo Vitale, fosse stato snobbato dai giudici del tempo e trattato come un pazzo, rinchiuso in carcere e lasciato senza tutele una volta uscitone, consentendo alla mafia, che non dimentica mai, di eliminarlo per quel tentativo di collaborazione. Scrive Falcone che quel collaboratore, la cui scelta veniva da un reale pentimento interiore, avrebbe potuto rivelare tante cose su cosa nostra e probabilmente anticipare e magari fermare l’ascesa dei corleonesi. Ricordo poi l’idea di Falcone sulla durata non eterna della mafia, su quella certezza che ogni fenomeno umano è destinato a finire. Quella frase mi rimbomba in testa, tante e tante volte, perché capita troppo spesso di sentir dire che Falcone si era sbagliato e che la mafia non finirà mai.

A 20 anni da quello scoppio, continuo a credere a Giovanni Falcone, continuo a credere  che fosse consapevole, non solo di dover morire presto, ma di tutto quello che sarebbe accaduto dopo. Continuo a credere che sapesse che c’era bisogno di tutto questo per arrivare a sconfiggere cosa nostra, che c’era bisogno di un risveglio della coscienza civile dei palermitani, dei siciliani e degli italiani, di una nuova spinta, di un’infornata di giovani che hanno scelto di spendere una parte della propria vita o l’intera loro esistenza in ambiti legati alla lotta alla mafia. Magistrati, poliziotti, giornalisti, sindacalisti, amministratori, commercianti, insegnanti, semplici cittadini che non si piegano, che operano per la legalità attraverso la memoria di quei giorni, che è anche memoria di sé stessi.

E penso che anche la moglie Francesca Morvillo, al suo fianco fino alla fine avesse questa consapevolezza. Così come gli uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani, pronti a proteggere quel magistrato in quella lotta che aveva visto cadere tanti colleghi, poliziotti e carabinieri. Lo facevano con coraggio, con spirito di sacrificio e con fiducia nello Stato, in quello Stato che, in alcune sue componenti deviate, li ha traditi. E sono certo che ci crederebbero ancora, perché da quella voragine, nata dopo uno scoppio, non è uscito solo il fumo e l’odore acre della morte, ma è fiorita una nuova speranza, quella che, in questi 20 anni, ha inseguito la verità e sa, questa volta, di poterla agguantare. Presto o tardi, durante o dopo la nostra esistenza, non importa. Ciò che importa è che il seme sia stato gettato e che la mafia, alla fine di tutto, non è riuscita ancora a vincere.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org