Morire lavorando. Morire di lavoro. Incidenti mortali, infortuni, sicurezza. Ogni volta parole che risuonano tristemente uguali, dannatamente tragiche. Un boato, un tonfo, un rumore funesto nella distrazione del quotidiano. Drammi personali, familiari, sociali che non trovano altro che qualche ora o giorno di attenzione pubblica, a volte solo locale, altre volte nazionale, e poi tornano nel loro privato fatto di assenza, dolore e rabbia. È un maledetto copione, una consuetudine tremenda dentro una nazione che di lavoro non si occupa più e ancor meno si occupa dei lavoratori, dei loro diritti, della tutela della loro incolumità.

Tutte le volte che delle persone muoiono mentre svolgono il proprio lavoro, ci si ricorda di un tema che la politica ha dimenticato, umiliato o gestito malissimo. Siamo stanchi di scriverlo, stanchi di leggere e ascoltare parole che, come prima cosa, mettono in luce le responsabilità dei lavoratori, i loro presunti errori, le disattenzioni, rinviando da subito qualsiasi altro ragionamento. Siamo stanchi di sentire le confederazioni sindacali parlare di sicurezza solo dopo che ci scappa il morto e poi tornare in una inerzia inconcludente o in un’azione morbida nei confronti di una politica che non interviene e di imprese che continuano a mettere al primo posto il profitto e il risparmio, annoverando infortuni e incidenti mortali tra i “possibili”, normali rischi di impresa.

Siamo di fronte a dati preoccupanti e purtroppo parziali. L’Inail parla di un sensibile aumento degli incidenti mortali nel 2017 rispetto agli anni precedenti, ma ci racconta anche di un incremento allarmante nel 2018, con i morti che sono già 154 (rispetto ai circa 133 dell’anno scorso nello stesso periodo). Numeri che vengono tristemente aggiornati quotidianamente e indicano persone, esseri umani, padri e madri di famiglia, figli, mariti, mogli, compagne, compagni, giovani, meno giovani. Italiani e non. L’impresa di piccole dimensioni è quella nella quale si verificano più incidenti, in quanto si spende meno in formazione e in dotazione di dispositivi di sicurezza. Ma il problema riguarda tutti.

Al di là dei dati dell’Inail, che non possono comprendere appieno il fenomeno, in quanto esistono ampie sacche di lavoro sommerso e sfruttamento incontrollato, la questione è culturale e politica. Per fare un esempio, le leggi sul lavoro che, nel grande orgasmo di propaganda renziana, dovevano favorire le assunzioni a tempo indeterminato, hanno invece semplicemente ridotto o spazzato via le tutele e la forza contrattuale del lavoratore. In molti casi, hanno persino favorito il precariato e i rapporti a termine, con conseguenze nefaste sulla sicurezza dei dipendenti. Le stesse previsioni sulla sicurezza del lavoro si sono rivelate inefficaci, come inefficaci, perché insufficienti e privi di mezzi e risorse, sono le ispezioni e i controlli preventivi.

In poche parole, il tema della tutela della salute e della incolumità dei lavoratori non è centrale nell’agenda delle forze politiche presenti nello scenario italiano. E non potrebbe essere altrimenti in un Paese che ha pian piano dato mano libera e incentivi a pioggia alle imprese, smontando al contempo le garanzie storicamente concesse ai lavoratori, senza occuparsi seriamente, con risorse, normative, strategie condivise con gli attori sociali e le rappresentanze, di uno dei problemi più grandi del mondo del lavoro.

Un problema che negli anni ha registrato cifre da guerra e che è inaccettabile ogni volta considerare degno di attenzione per il tempo necessario a piangere le vittime, per poi nasconderlo nuovamente nel silenzio e nell’oblio. Dopo Treviglio, ce n’è stato un altro a Marghera e poi altri due a Crotone. E la cosa peggiore, la cosa più brutta è pensare che nei pochi giorni trascorsi dalla stesura di questo pezzo alla sua impaginazione e pubblicazione, abbiamo dovuto aggiornare il numero delle vittime nel 2018. Abbiamo aggiunto altri luoghi, altri nomi, altri morti. In un conteggio che sembra infinito. Di fronte a tutto ciò, abbiamo forze politiche che difendono una legge che non solo non ha migliorato la situazione generale, ma è stata incapace di gestire la questione della sicurezza.

Le confederazioni sindacali, dal canto loro, hanno annunciato che il prossimo Primo Maggio sarà dedicato al tema degli incidenti e degli infortuni sul lavoro. Ma c’è ancora quasi un mese davanti da trascorrere. Un mese nel quale quella dannata cifra probabilmente crescerà. Un concerto o un comizio non sono sufficienti, ci vorrebbe qualcosa ora e subito, un’azione decisa, una mobilitazione generale, costante e massiccia, una proposta chiara da presentare ai rappresentanti delle varie categorie di impresa, al ministero, al futuro governo o a chi ne farà le veci in attesa di nuove elezioni.

Di certo, l’unica cosa che non bisogna fare è attendere. Perché, quando in gioco c’è la vita anche di un solo lavoratore, ogni giorno di inerzia e di rinvio è un giorno di inaudita complicità. Ricordarsi che si muore sul lavoro solo quando ci sono i corpi a terra è un oltraggio alla dignità dei lavoratori e delle loro famiglie. Un oltraggio a una Repubblica alla quale la centralità del lavoro è legata, anche per iscritto, indissolubilmente.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org