L’Italia si era quasi convinta che tutto fosse finito, dal momento che i media non ne parlavano più. Eppure a Lampedusa e in altre zone del Sud, le barche stipate di migranti in fuga dalla fame e dalle guerre non hanno mai smesso di arrivare. Ci sono voluti il sindaco di Lampedusa e il suo accorato appello che ha schiaffeggiato moralmente gli indifferenti e i responsabili a ogni livello, la visita improvvisa di Papa Francesco nell’isola, le sue parole, e poi, soprattutto, la solita tremenda dose di drammi, di morti a due passi dalle nostre rive, di vite spezzate dal mare, per svegliare tutti, di colpo. I mass media hanno ripreso a dare spazio alle notizie di sbarchi, di naufragi e a quella che, in maniera indebita, continua ad essere definita “emergenza” (perché ci si ostini a chiamare così un fenomeno che dura da quasi venti anni, non è dato capirlo).

Così, finalmente, si è smesso di parlare solo di “seconde generazioni” o di razzismo (temi importanti per carità) e si è ripreso a ragionare sull’accoglienza, sui diritti, sulle caratteristiche di questo nuovo flusso, sul modo come sempre indegno con il quale viene gestito. Certo, a prevalere è sempre quella che viene definita “spettacolarizzazione”, la tendenza a focalizzare il proprio obiettivo sullo sbarco, sul dolore, sulla fatica dell’arrivo. Si identificano le provenienze geografiche (siriani, eritrei ed egiziani in fuga dalla violenza e dalla morte), si registra che ad arrivare sono principalmente minori e donne (spesso con neonati o in gravidanza), si certifica il problema dell’accoglienza (la solita “emergenza”), con la regia affidata alle prefetture e alle forze dell’ordine (come sempre). Stop. Solo che questa volta si è acuito il tema dei minori non accompagnati ed è intervenuto più di un fatto nuovo. Prima, però, partiamo da quelli vecchi.

Le strutture. A Siracusa, fino ad inizio agosto, ce n’era solo una, il centro “Umberto I”, luogo chiuso a chi volesse raccontarlo, inadeguato sia sul piano igienico-sanitario che su quello della prima accoglienza. Luogo nel quale la separazione tra adulti e minori è praticamente impossibile. Con quel che ne deriva. È gestito dalla Clean Service, un’azienda di pulizie. Come mi racconta un giovane eritreo, “oltre a essere in troppi e in condizioni insostenibili, nessuno parla con noi durante il giorno. Non facciamo alcuna attività. Ci danno solo i bigliettini numerati per i pasti giornalieri”. Ha lo sguardo sveglio tipico di un ragazzo di 17 anni, mi sorride e con il suo inglese pulito mi dice di essere arrivato quasi un anno fa e di trovarsi nel centro da allora. Ecco che veniamo al punto dolente. I minori non accompagnati non dovrebbero sostare in un centro come quello e in ogni caso per non più di 72 ore, visto che dovrebbero essere mandati in una apposita struttura di accoglienza dedicata alla loro tutela. Invece, accade che un ragazzo rimanga in un posto del genere addirittura per un anno.

Sull’Umberto I si sono finalmente accesi i riflettori, specialmente dopo la protesta di un gruppo di migranti, sedata con la forza (azione più che discutibile) dalla polizia. Le visite dei parlamentari si sono susseguite e hanno confermato le condizioni pessime della struttura, dove manca tutto, a partire da un presidio medico, questione tamponata, a partire  da luglio, con l’operatività dell’ambulatorio mobile di Emergency, che presta assistenza e cure ai migranti. Nel frattempo, ad agosto, è nato un altro centro, quello di Priolo, chiamato “Papa Francesco”. Si trova alla periferia nord di Siracusa, in un’area abbastanza desolata e decentrata, alle spalle della zona industriale. Accoglie minori non accompagnati, donne e nuclei familiari (in misura minima).

Senza indagare sulle motivazioni interiori che hanno spinto un imprenditore del settore della vigilanza (ed ex politico transumante) a mettere in piedi un’associazione e a dare la disponibilità della propria struttura aziendale come centro di prima accoglienza, i ragazzi che ho incontrato visitando il centro mi hanno raccontato di trovarsi bene e di essere trattati con umanità, in particolare da un volontario, un giornalista che mi racconta la sua esperienza, la sua voglia di mettersi al servizio degli altri e mi guida nelle stanze mostrandomi rapidamente i letti e la suddivisione delle ali dell’edificio in tre aree: minori non accompagnati, donne e nuclei familiari. Poi, nel cortile, due tende da 15 posti ciascuna, di quelle usate dalla protezione civile, per far fronte ad un eventuale surplus (i posti totali sono 97, con le tende si può arrivare a 127).

Ciò che vedo è una struttura molto spartana, accettabile sul piano igienico (i bagni però non li ho visitati), ma priva di presidio medico, di mediatori culturali (“ci stiamo organizzando, c’è già una mediatrice di origine eritrea che ci assiste”, mi dice il collega/volontario) e soprattutto di esperienza nell’ambito (e questo vale anche per l’Umberto I). Sì, perché il punto che non viene mai toccato a dovere è proprio questo. Al di là della buona volontà e della filantropia, tali strutture vengono autorizzate sulla base di una semplice lettera di disponibilità a Prefettura e Questura, a cui segue una verifica dell’idoneità dei locali (ma quali sono i requisiti standard?) e nulla più. Niente valutazione di competenze, titoli, esperienza specifica, conoscenza delle lingue, numero e tipologia di operatori, presenza di mediatori culturali riconosciuti. In nome dell’emergenza si passa sopra a questi “dettagli”. Non è un caso che, come avvenuto per l’Umberto I, si affidi a un’impresa di pulizie la gestione di un centro, in nome dell’allora “Emergenza NordAfrica”. Poi, pian piano, dopo lo sforzo iniziale, questi luoghi cessano di operare a titolo volontario e si convenzionano, con lo Stato che si impegna a riconoscere un tot di euro al giorno per ciascuno degli ospiti.

Niente di anomalo, per carità, la gestione costa ed è normale che ci sia un contributo delle istituzioni. Il problema è che poi nessuno controlla realmente come vengono spesi questi soldi. E se a Priolo, come ci auguriamo e come ci ha assicurato il giornalista/volontario, verranno spesi bene e nell’unico interesse del buon vivere dei migranti ospitati, ci sono esempi innumerevoli, da Mineo al vecchio e famigerato centro di Cassibile (adesso chiuso e finito più volte sotto inchiesta e sotto processo), per arrivare al CIE di Trapani, gestito dalla società siracusana Oasi (a cui è stata appena tolta la gestione), di come poi spesso queste strutture si siano trasformate in lager, con il fondato sospetto che i soldi non siano stati destinati alle finalità richieste. E ricordo bene quanto accadeva a Cassibile con i rifugiati eritrei e somali lasciati fuori dal centro a dormire sotto gli alberi della campagna circostante, con in tasca una protezione umanitaria, senza che nessuno avesse avvisato l’ACNUR, denunciandone la dimissione dalla struttura e quindi la destinazione al Programma nazionale asilo.

Ne abbiamo viste tante in questo Paese assurdo, che umilia il diritto all’asilo, a tal punto che adesso (ecco il fatto nuovo) i migranti che arrivano sanno già cosa li aspetta e vorrebbero che questa fosse solo una terra di passaggio. Per tale ragione rifiutano di essere identificati. Per tale ragione spesso gli viene consentito. Così questi ragazzi, quasi tutti minori, vanno via, scappano per continuare il viaggio e cercare di giungere in altri paesi europei. O finiscono nelle grinfie dei tanti negrieri pronti a sfruttarne le braccia. Diventano fantasmi. Adesso è sceso in campo il Tribunale dei Minori, perché si sono moltiplicate le segnalazioni di macchine che prelevano i migranti minorenni fuori dai centri che li ospitano e li portano chissà dove.

Un’altra questione da affrontare in questa situazione caotica e figlia di decenni di inettitudine politica, sia sul piano nazionale che su quello locale. Chi urlava solitario contro il vento di indifferenza, sfruttamento e crudeltà, reclamando accoglienza vera, apertura, umanità e profetizzando una situazione simile a cui bisognava giungere preparati, aveva ragione. Ma è chiaro che ascoltarlo avrebbe determinato un rifiuto delle logiche emergenziali. E l’emergenza, si sa, conviene. A tanti.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org