Il clima di trionfalismo che Renzi e i suoi cercano ostinatamente di costruire ogni volta che ne hanno occasione, con tanto di autocelebrazione social, comincia davvero a diventare irritante. Soprattutto se, come grimaldello per scardinare la realtà, utilizzano i dati soltanto quando permettono, in qualche modo, una lettura favorevole all’azione del governo, chiaramente a patto che non si vada oltre e non si ceda alla tentazione dell’approfondimento e dell’obiettività. La questione del lavoro e della riforma racchiusa nella sigla Jobs Act è stata al centro di roventi polemiche tra chi si eleggeva a modernizzatore assoluto e chi, dall’altra parte, viveva e vive ancora concretamente una realtà fatta di diritti ridimensionati, precarietà, disoccupazione. Su questo tema, dopo l’approvazione unilaterale della riforma, in barba a ragionamenti, compromessi sociali e a un serio confronto tra le diverse posizioni, si è scatenata una guerra di cifre, dati e relativi grafici sull’effettivo risultato prodotto dalla legge.

Poche settimane fa, la Banca d’Italia ha pubblicato uno studio secondo cui l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato è dovuto solo in piccola parte all’impianto del Jobs Act. Tale studio afferma, infatti, che è stato il sistema degli incentivi all’assunzione ad aver maggiormente contribuito a determinare il trend positivo. Va ricordato, per chiarezza, che questi incentivi, inizialmente, consistevano in uno sgravio triennale del 100% per chi assumeva, entro il 31 dicembre 2015, lavoratori disoccupati da almeno sei mesi. Da gennaio 2016, però, lo sgravio è stato ridotto al 40% e ha una durata minore (biennale). Un elemento non da poco, che non si sposa con i trionfalismi renziani, perché bisognerà capire cosa accadrà quest’anno, con la recente riduzione degli incentivi, e ancor più quale effetto si avrà sul mercato del lavoro quando l’intero sistema degli incentivi si esaurirà, considerando che, oltre alla spesa a vantaggio delle imprese, il Jobs Act prevede anche maggior potere per le imprese stesse, a partire dalla assoluta “licenza di licenziare” in qualsiasi momento senza alcuna possibilità di tutela per il lavoratore.

Non solo si rischia, dunque, di vanificare un esborso di soldi pubblici notevole, ma anche di ritornare a una nuova fase di stallo delle assunzioni e di aumento della disoccupazione. Un rischio che il governo non mette in conto, anzi, solo provare a paventarlo viene considerato un esercizio da pessimisti o da “gufi”, assolutamente dissonante rispetto all’ottimismo e al clima di trionfo urlato da Renzi, Poletti e simili. Altro terreno di dibattito è quello dei dati provvisori sul mese di gennaio, forniti dall’Istat qualche giorno fa. Tali dati scattano una fotografia fatta di luci e ombre: un lieve aumento (+0,3%) della stima degli occupati (+70mila persone), un tasso di disoccupazione stabile (11,5%), quello di occupazione al 56,8%, in leggerissima crescita (+ 0,1%), l’aumento dei contratti a tempo indeterminato (99mila a gennaio e +426mila sull’anno), la riduzione del numero degli inattivi soprattutto nella fascia 50-64 anni (dato legato probabilmente alla stretta sulle pensioni). Sono proprio gli over 50 la fascia che cresce di più, con un saldo positivo di 359mila unità rispetto al gennaio del 2015 e di 73mila su dicembre.

E fin qui le luci, quelle che hanno portato Poletti a esultare e Renzi, come spesso accade, a pompare i dati, prendendo in esame quelli dell’Inps, senza badare troppo alla realtà: “L’Inps ricorda come siano aumentati i contratti a tempo indeterminato nel 2015 di qualcosa come 764.000 unità! I numeri dimostrano che l’Italia è tornata. Non la lasceremo in mano ai catastrofisti che godono quando le cose vanno male. Con questo governo le tasse vanno giù, gli occupati vanno su, le chiacchiere dei gufi invece stanno a zero”. Peccato che Renzi si fermi ad osservare solo quello che più gli fa comodo, perché altrimenti saprebbe che il dato Inps andrebbe spiegato meglio, ad esempio chiarendo che la rilevazione Inps avviene sulla base di dati amministrativi e non statistici (come spiega molto bene un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano) ed è “la somma fra il numero delle trasformazioni (578mila) e il saldo fra assunzioni e cessazioni (186mila)”, cosa ben diversa dal sostenere, come fa il governo, che quel dato sia interamente quello delle nuove assunzioni.

In più, ci sono le ombre: ossia il fatto che l’occupazione cresca davvero poco rispetto a quanto ci è costato il Jobs Act in termini di incentivi e di rinuncia a diritti e tutele fondamentali, e soprattutto il dato preoccupante del tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), che raggiunge il 39,3%, il valore più alto dall’ottobre scorso. Insomma, al di là di qualche barlume di speranza, ci sarebbe poco da esultare, specialmente se si considera poi che anche le assunzioni a tempo indeterminato, salutate come un grande risultato, andrebbero analizzate sulla base del fatto che sono forme contrattuali che non danno alcuna garanzia e tutela, almeno nell’immediato. È probabile, anzi, che la maggior parte di questi contratti non arriveranno a superare il periodo di tempo necessario affinché possano produrre una tutela piena, dal momento che, prima di quello scatto, l’impresa che ha scelto di assumere usufruendo degli incentivi può decidere di risolverli unilateralmente senza alcun problema e con il pagamento di un misero indennizzo.

In questo ambito, poi, si inserisce anche l’altro grande bluff renziano, ossia quello degli ammortizzatori sociali che avrebbero dovuto essere potenziati come “risarcimento” allo smantellamento delle tutele contrattuali. La riforma avrebbe dovuto infatti tutelare quella ampia fetta di lavoratori precari, costretti ad anni di forme contrattuali come i co.co.pro., le famigerate collaborazioni a progetto, sulla carta dotate di una maggiore libertà da obblighi di presenza oraria o giornaliera sul luogo di lavoro, ma nei fatti semplicemente una copertura per forme selvagge di lavoro dipendente a tutti gli effetti, con orari rigidi, ferie prestabilite e permessi da chiedere (ovviamente non per iscritto). L’istituzione della Naspi al posto della vecchia Aspi per i lavoratori che perdono il lavoro non per causa volontaria, ha sicuramente potenziato e semplificato l’istituto, aumentando la copertura con l’estensione dei requisiti e della durata, ma ha completamente dimenticato qual è stata la realtà del lavoro in Italia negli anni precedenti.

Oggi, infatti, con il nuovo sistema, chi ha lavorato “a progetto” negli anni precedenti, viene nuovamente beffato (come già in passato, soprattutto nel periodo di vuoto tra approvazione del Jobs Act e sua entrata in vigore). Nel calcolo della Naspi, infatti, i contributi e le retribuzioni da contratti a progetto non vengono presi in considerazione. Questa è una lacuna pesante se si pensa che, ad esempio, la durata dell’indennità di disoccupazione si calcola dividendo per due le settimane di contribuzione vantate negli ultimi 4 anni e che anche l’imponibile utile per il calcolo della media, dalla quale si trae l’ammontare del sussidio, prende in esame gli ultimi 4 anni. Cosa vuol dire, in concreto? Che se hai lavorato due o tre anni a progetto e poi sei stato assunto a termine per pochi mesi, al momento in cui non ti viene rinnovato il contratto, vengono presi in esame solo quei mesi svolti da dipendente.

Se, quindi, ad esempio hai lavorato 6 mesi (24 settimane), la durata del sussidio sarà la metà, dunque tre mesi, con buona pace delle eventuali 70, 80 o 120 e più settimane precedentemente lavorate a progetto nel corso dell’ultimo quadriennio. Ovviamente stesso discorso vale per l’ammontare dell’indennità, che prende in esame solo l’ultima retribuzione. E questo accade anche a chi, assunto a tempo indeterminato qualche mese fa, dovesse essere licenziato all’improvviso. Insomma, alla fine, anche l’estensione degli ammortizzatori per il sostegno a chi perde il lavoro è pieno di insidie e tranelli.

Nel contraccambio tra rinuncia alle tutele, maggiori opportunità di lavoro e welfare potenziato, dunque, alla fine ci perdono solo i lavoratori e il Paese reale. A guadagnarci, invece, sono solo le imprese, soprattutto quelle che per anni hanno vissuto sulle spalle di chi veniva sfruttato e privato di qualsiasi possibilità di futuro. Guai a dirlo, però, guai a portare questa evidenza agli occhi di chi vuole convincerci, dal chiuso del proprio ufficio al piano alto, che qui, di sotto, sta andando tutto bene e che i dati e le stime sono una verità certificata, per la quale è consentita un’unica chiave di lettura, quella di chi comanda e dei propri ottusi sostenitori. L’Italia non è Paese per gufi e pessimisti, dicono. Di sicuro, però, è il Paese perfetto per ciarlatani, prestigiatori e bugiardi.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org