Le commesse di Fincantieri hanno l’odore antico dei trenta denari versati in cambio di un tradimento. I sommi sacerdoti e gli scribi del nostro tempo siedono nei consigli di amministrazione e nei banchi di un Parlamento dove i sentimenti non trovano posto. L’interesse nazionale: quante volte abbiamo sentito questa ipocrisia nel corso del tempo, anni in cui abbiamo assistito alle porcherie più devastanti dal punto di vista umano, sociale e politico. Ma qual è, dunque, questo interesse nazionale capace di passare con indifferenza sopra ogni umana emozione? L’interesse nazionale ha la faccia sempre in ordine e la cravatta intonata alla camicia, siede ai tavoli in legno pregiato dei comitati d’affari di aziende, banche e governi compiacenti. Ha la faccia sorridente dei manager sempre pronti a stringere una mano che porta denaro e nasconde il sasso nella tasca. L’interesse nazionale è il grande cerchio magico delle “eccellenze” che producono l’export più infame ma più redditizio: gli armamenti.

La lobby italiana delle armi si afferma sempre più a livello internazionale: efficace, puntuale e letale. Leonardo Company si autodefinisce “la principale azienda industriale italiana e tra le più importanti aziende al mondo dell’Aerospazio, Difesa e Sicurezza”. Nel tempo ha assorbito le principali aziende dell’aeronautica e dell’elettronica, dei sistemi navali e missilistici; oggi quando si parla di Leonardo i nomi che alimentano i fatturati sono quelli di Alenia Aermacchi, di Agusta Westland e Oto Melara, Selex e altri per arrivare a circa 30mila dipendenti e fatturato di miliardi di euro. Aerei ed elicotteri da guerra, elettronica e sistemi di puntamento. A questi nomi si aggiunge l’eccellenza missilistica del gruppo MBDA. La pagina Web di presentazione di questa “eccellenza” e quella relativa ai risultati dell’anno 2018, parlano da sole e spiegano meglio di mille commenti (clicca qui).

Naturalmente, in questa famiglia, non manca un posto a tavola per Fincantieri. Nell’inverno di un 2020 maledetto, queste fabbriche non si sono mai fermate. Il blocco e l’isolamento che tutti abbiamo imparato a conoscere come “lockdown” non le ha riguardate (leggi qui). Anzi, il decreto governativo del 25 marzo scorso sottolineava che “sono consentite le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, nonché le altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale, previa autorizzazione del Prefetto della provincia ove sono ubicate le attività produttive”. Le parole del ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, sono andate addirittura oltre: “È riconosciuta la strategicità e, più in generale, l’apicale importanza per il nostro Paese delle imprese operanti nei suddetti settori industriali, imprese la cui attività produttiva, anche in un momento altamente critico come quello che stiamo affrontando, si è comunque deciso di tutelare appieno”.

Quindi, anche nei mesi in cui solo una parte dell’Italia si è fermata, la Grande Mietitrice ha lavorato indisturbata. Naturalmente lo ha fatto in nome dell’interesse nazionale, non poteva essere altrimenti considerando che il governo, attraverso il ministero dell’Economia e delle Finanze, è l’azionista di riferimento di aziende come Leonardo e Fincantieri. Ma dove finiscono le armi italiane? I dati del 2019 ci dicono che all’Egitto di Al-Sisi abbiamo fornito armi per quasi un miliardo di euro e che quasi 500 milioni arrivano dal regime autoritario del Turkmenistan, mentre le consegne definitive fatturate si attestano sui 3 miliardi. Turchia, Algeria e Israele sono i partner più amati dagli italiani, un po’ come succedeva nella pubblicità delle cucine Scavolini di un tempo! Ma non mancano la Corea del Sud e il Brasile (clicca qui).

Adesso è chiaro quale sia l’interesse nazionale. Non il progresso sociale e umano di una società, la salute e la cura dei suoi cittadini, la formazione e la cultura degli adulti di domani, il superamento di barriere culturali, la messa in sicurezza di un territorio devastato da frane, alluvioni e terremoti, la salvaguardia di un ambiente che è di tutti, la lotta alle mafie… Dai, non scherziamo. L’interesse nazionale è altra cosa, è una cosa da grandi e non per sognatori adolescenti, è nascondere e occultare gli scheletri nell’armadio della storia, depistare e inquinare tutte le porcherie di cui il nostro Paese è vittima e protagonista da sempre, è il profitto di pochi. Nelle fabbriche oggi si muore come si moriva una volta, oppure si avvelena una città come Taranto. In passato era successo a Marghera, Monfalcone, Casale, Priolo, Augusta, Seveso. Oggi abbiamo le “eccellenze” con licenza di uccidere a distanza, si muore di precisione in altri Paesi che sono lontani da noi, che ci importa?

Le scorie vanno eliminate, in un modo o nell’altro. Un tempo gli uomini partivano con una slitta trainata dai cani per cercare la ricchezza nel Klondike. Oggi l’oro si cerca con minor fatica: bastano alcuni Paesi in guerra, equilibri geopolitici da mantenere o conquistare, fabbriche moderne e tecnologiche. Basta una sala rinfrescata dove un Consiglio d’Amministrazione si siede comodamente per studiare dove, come e quando. Di fronte a questi numeri, di fronte a scelte industriali e politiche dove l’unica variabile è rappresentata dal profitto economico, quanto conta la vita di un ragazzo torturato e assassinato a casa di un cliente così importante e privilegiato come l‘Egitto? Vale trenta denari, o poco più.

Il dolore di una madre e di un padre possono solo smuovere qualche coscienza, nulla di più. La mamma di Giulio Regeni ha ricordato gli incontri con i presidenti del Consiglio e con i ministri degli Esteri che si sono succeduti dalla morte del figlio, ma non ha potuto ricordare nessun incontro con i ministri dell’Interno da Alfano a Minniti e Salvini, perché quei ministri si sono sempre negati. “Quel che era successo nei dettagli a Giulio, e cioè che era stato torturato, l’abbiamo scoperto leggendo i quotidiani online. Forse non ci è stato detto” dalle autorità italiane “per una sorta di tutela, per non farci soffrire, ma nell’epoca dell’informazione, fake news a parte, tutto si viene a sapere. Giulio era andato al Cairo come ricercatore, non perché gli piaceva girare al Cairo per bancarelle. Doveva essere un approfondimento sul campo di una ricerca molto più ampia, storico-sindacale. L’Egitto doveva essere un focus come quello sui sindacati, sia quelli indipendenti sia quelli filo governativi. La sua ricerca era più ampia di quella che la stampa ha pensato di evidenziare”.

Cercare e pretendere la verità sulla morte violenta di Giulio Regeni è un dovere irrinunciabile ma oggi diventa difficile capire a chi chiederla: lo Stato italiano si è dimostrato incapace di volerla, esattamente come accaduto a suo tempo per Ilaria Alpi. Incapace di trattare con l’Egitto e spaventosamente timido nei confronti dei presunti alleati europei: un nome su tutti, l’Inghilterra. Non una domanda scomoda, nessuna pretesa di collaborazione nell’inchiesta è stata rivolta con la dovuta decisione al Regno Unito.

Rimane, infine, un’ultima considerazione, dolorosa e amara quanto e forse più di tutte le altre. Fra le cose lette e sentite in questi giorni sulla faraonica commessa di Fincantieri all’Egitto, una ferisce profondamente, ed è una ferita difficile da cicatrizzare: l’applauso del sindacato, quindi di una parte rilevante del mondo del lavoro, all’accordo con l’Egitto. È un applauso che offende, ma forse offende solo chi è rimasto uno sciocco adolescente sognatore e sceglie di continuare ad esserlo. Cercare e pretendere la verità sulla morte violenta di Giulio Regeni è un compito faticoso, e in nome “dell’interesse nazionale” non conviene: può creare incidenti diplomatici, può disturbare trattative commerciali e politiche, può annullare contratti. E i contratti sono profitto, sono il nostro Klondike.

La storia insegna che trenta denari si accettano sempre. Un abbraccio Giulio, dovunque tu sia.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org