La follia come strumento di libertà e di rifiuto di convenzioni e schemi già preconfezionati. I SupErba, band vicentina di cui vi parliamo oggi, ci offrono un canto di liberazione avvincente, emozionante e musicalmente di grande valore. “Non seguo la cura” è il titolo del loro nuovo album, uscito il 10 novembre e promosso e distribuito da Alka Record Label. Un album che è il frutto di un intenso lavoro in sala di registrazione e segna una nuova maturità per questo gruppo che è nato nel 2001 e che, dopo un disco autoprodotto (nel 2006) e un periodo di stop, si è riformato nel 2015.
“Non seguo la cura” è composto da otto tracce musicalmente impeccabili e arricchite in maniera eccellente dalla stupenda voce della cantante Keti. Una voce bella, avvolgente, graffiante, viva. Il tutto si incastra con testi ben costruiti che ci raccontano il concept del disco, che tratta il tema della libertà, della volontà di non rinunciare a noi stessi, della necessità di distinguerci e resistere alla massificazione (come ci ha spiegato Riccardo, chitarrista del gruppo, nel corso dell’ultima puntata di “The Independence Play” sulla nostra radio).
In Io sono perfetta, traccia di apertura, il tempo e la musica vibrano, mentre il basso ci percuote senza tregua. «Sono perfetta, non seguo la cura», cantano. E noi non possiamo fare altro che convincerci di questo. Perché in effetti tutto risulta perfetto. Sia la musica sia la voce, nella sua essenziale manifestazione. Una voce che scioglie i dubbi, si insinua, seduce e se ne frega che ci “piova giù l’inferno”. Bellissime le distorsioni finali che non lasciano scampo: la musica è hard-core, punk e distorcere serve a scavare dentro, fino a ritrovarci nudi e senza schermi. Finalmente veri.
La musica dei SupErba appare subito intensa, piena, con un’identità e uno stile. Da musica e testi trapelano contemporaneamente forza e dolcezza. La voce è ricca di tutto ciò, sa variare, sa incresparsi e addolcirsi, sa diventare un mare azzurro da navigare o una burrasca da non sfidare.
Felici e contenti è coinvolgente: all’inizio è puramente punk ed emana una rabbia tangibile, un’accesa urgenza di giustizia, che esplode poi in un metal liberatorio chiamato a condannare i nostri demoni a strisciare verso l’inferno. Stelle che parlano è invece un brano dolcissimo: la voce qui diventa profondissima, materna, sognante. Perché chi conosce bene la notte più nera riconosce subito la luce delle stelle, così come chi conosce il dolore sa riconoscere la dolcezza che lenisce e rinfranca. Questa canzone ha una musicalità incantevole, segnata da un giro di chitarra e dal bellissimo xilofono, e riesce a sciogliere tutte le ansie in un abbraccio di note. Così non ci resta che vivere per continuare ad essere stupiti.
I SupErba ci risvegliano dalla sensazione di non sentire più niente (Anestesia), di essere anestetizzati da una condanna alla normalità che ci ingoia e ci fa digerire dalla noia che rende i giorni tutti identici tra loro. La loro musica allora può davvero essere la cura, l’unica possibile per salvarci dall’anestetica normalità del quotidiano.
In questo disco l’alchimia tra sound e cantato è davvero azzeccata e permette la costruzione di uno stile che non implichi la ricerca di influenze precise o la rinuncia alle sfaccettature della propria unicità. Questi bravi artisti hanno saputo mostrarsi, in tutte e otto le tracce, senza timori. E ci vogliono coraggio e bravura per riuscire a mettersi a nudo in un rock così equilibrato e bello. «Ancora tutto è possibile», cantano nel penultimo brano del disco, e noi glielo auguriamo perché lo meritano davvero. Siamo sinceri quando diciamo che è raro ascoltare proposte tanto complete e artisti con uno stile così consapevole e bello.
“Ed ora voglio solo ridere distesa sopra il mio disordine”, recita invece il brano Sulla mia pelle. E noi non possiamo che amare questo disordine, questo sorriso e la loro arte.
I SupErba hanno bisogno di raccontare la propria personalità, indagare la realtà senza paura di esprimere il disappunto e il disagio nel viverla. Lo si evince anche dalla copertina, che raffigura una donna con sulla schiena il test di Rorschach: la nostra pelle dunque è carta e la colonna vertebrale è la linea che permette ai colori di mescolarsi. Il dolore, la rabbia, la gioia, la noia, l’urgenza di una rivincita, il bisogno di una tregua. Colori che vengono stesi e che creano quadri o album stupendi. Proprio come questo.
FrankaZappa -ilmegafono.org
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