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Questa mattina, apro l’edizione online di Repubblica e su un riquadro in homepage leggo: “Milano, notte in bianco per catturare l’iPhone 6” (leggi qui). Guardo le immagini di questa fila di gente che sfida la notte per un oggetto. Per averlo per primi. Non è la prima volta che accade e ogni volta si osservano folle di esaltati in coda per quello che è solo un oggetto. Sarà pure “cool”, come dicono loro, ma è pur sempre uno stramaledetto smartphone.

E tutte le volte mi metto a pensare. L’Italia è in crisi, certo. L’Italia non ce la fa più, sicuro. Gli italiani muoiono di fame, ovviamente. Sono disperati, però poi si mettono in fila. La notte. Di giorno, invece, non partecipano a nulla che riguardi la collettività e i suoi problemi, si disinteressano (al massimo si affidano, per simpatia, a questo o quel presunto salvatore della patria), e poi ripetono in coro, come una lezioncina triste, che gli immigrati ci tolgono il lavoro e stanno meglio di noi. Che il problema sono loro.

Bene, si dice che l’esperienza diretta sia uno dei metri migliori per misurare la realtà.

Perfetto.

Allora io posso dire che in vita mia ho visto decine di migranti in fila. Li ho visti subito dopo uno sbarco, con le facce stravolte, le gambe molli e le labbra secche e disidratate per la sete. Li ho visti davanti alle mense, li ho visti in fila (ero insieme a loro), dalla notte a ora di pranzo, davanti a una questura per cercare di entrare nella cerchia dei venti fortunati che l’ufficio immigrazione, aperto solo due mattine a settimana, avrebbe potuto ricevere per il disbrigo delle questioni burocratiche da cui dipende una vita o la possibilità di sopravvivere e andare avanti.

Li ho visti in fila per scegliere il proprio materasso e andare a dormire dentro un dormitorio o una chiesa.

Li vedo dentro i tram, con i telefoni normali, quelli che noi abbiamo scartato e buttato nel nostro cestino da benestanti.

Li ho visti in fila ad attendere un autobus o un treno, insieme, per poter partire ciascuno verso le proprie destinazioni, lontano dagli inferni che anche l’Italia gli riserva.

Li ho visti sotto gli alberi, fuori da un centro di accoglienza infame e illegale, con in tasca un documento di protezione umanitaria ma senza alcuna idea di dove andare e senza un soldo per un biglietto, mangiando e dormendo sotto le fronde dei carrubi, soli al mondo, in attesa che qualcuno si occupasse di spiegare come poter contattare l’UNHCR.

Li ho visti in fila nel centro di piccoli paesi o borghi rurali, di prima mattina, ad attendere i caporali, a farsi tastare braccia e muscoli per sperare di essere scelti e poter lavorare, 14 ore a schiena curva sui campi di fragole o pomodori, oppure in mezzo agli aranceti, per 35 euro, senza diritti, senza tutele, senza maschere, senza guanti, senza scarponi. Nulla.

Li ho visti in fila tornare a piedi, sulle strade provinciali, dopo una giornata di fatica, mentre altri passando scaricavano su di loro insulti e pietre.

Li ho visti poche volte incazzati, li ho visti sorridere sempre, anche se era un sorriso amaro e triste, ma pieno di speranza, di chi ha messo in gioco tutto se stesso per sopravvivere e per andare avanti. Il sorriso amaro di chi sa quali siano le cose veramente importanti della vita, ma anche quanta fatica debbano fare per poterne conquistare qualcuna.

Guardo le foto su Repubblica e capisco che ci sono due mondi distanti che vivono nottate e giornate profondamente diverse. C’è chi le notti le passa in fila davanti a un negozio illuminato e luccicante, chi invece le passa a sperare di vedere finalmente quelle luci giallastre e sfocate spuntare dal buio e indicare che la terra è vicina e che forse la pelle è salva e la vita potrà continuare. E al diavolo la morte!

C’è chi le notti le passa in fila attendendo il mattino per mettere le mani su un prodotto costoso ed esclusivo, chi invece le passa in fila davanti a un ortomercato per sperare di lavorare, caricando e scaricando cassette di frutta e verdura per una paga misera e aspettando il mattino per andare a riposare un po’, che poi si ricomincia a lavorare da qualche altra parte e la notte successiva ci si riproverà di nuovo.

Sì, lo so che ci sono anche italiani che stanno male, in situazioni terribili, italiani che nelle file luccicanti a caccia di oggetti di culto commerciale non ci vanno, non ci possono andare. Ma c’è un pensiero malizioso, che forse vi irriterà, ma che pulsa con forza nella mia testa: vale a dire l’idea che una parte di questi italiani soffra più per quest’ultimo aspetto, per non poter accedere a quella fila, per non poter essere dentro quel “gruppo” dallo status marchiato dal possesso di un prodotto. Soffrono non perché non possono conquistare le cose importanti della vita, quelle basilari, quanto perché non riescono a conquistare quel tipo di vita.

Sono vecchie questioni sul modello di benessere, sul capitalismo e sullo schema di valori che esso comporta, modifica, stravolge. Ma sono questioni, naturalmente dal mio punto di vista, ancora valide, perché spiegano tante cose; spiegano, ad esempio, perché i lavori più umili gli italiani non vogliono farli (e non è solo un fatto di prezzo) e preferiscono stare a casa a lamentarsi o a vomitare un razzismo di riflesso sugli immigrati che invece accettano, poiché di stare a casa non possono permettersi. Non hanno qui famiglia, né genitori a sostenerli, né nonni che mettono a disposizione le loro pensioni o le loro mance. E questi esseri umani venuti dal Sud del mondo sono molto spesso laureati e diplomati, parlano più lingue correntemente, sono il meglio della classe dirigente di quei paesi che abbiamo contribuito attivamente a rendere inferni dilaniati da guerra, violenza, bombe, omicidi politici, persecuzioni etniche. Spesso sono molto più preparati e ambiziosi di molti di noi, ma devono vivere, devono riuscire a sfamarsi e pagare un affitto, ma anche a mandare qualcosa alle famiglie rimaste in patria. Non hanno tempo di trovare il lavoro perfetto o per fare la fila negli store.

Guardando queste immagini, che sono sempre le stesse ogni volta, penso che questo sia un Paese che non ragiona su se stesso e nella quale si è smesso di ragionare sulle diseguaglianze vere. La sinistra stessa e l’intellettualità giovanile che un tempo abbatteva gli schemi con una concezione radicale che, esclusa la deriva violenta, non ammetteva giustificazioni ed era moralmente sincera, si sono scolorite, divenendo spettatrici o, peggio, partecipanti attive al modello imposto dall’alto. Un “alto” che, come sempre, non è solo politico, ma anche economico, commerciale, industriale e, purtroppo, culturale.

Oggi siamo tutti costantemente spinti dentro la fila, sottoposti alla droga fornita dalle luci, dagli arredi freddi, dalle vetrine linde. Alcuni di noi, spintonando, riescono a non entrarci, a rimanere fuori, a contestare questo rincoglionimento generale, questo arruolamento in un esercito di replicanti. Ma siamo sempre meno e ci considerano vecchi, rompipalle, fuori moda (non vintage, perché sarebbe già un complimento), perfino retorici. Si offendono pure quando rifiuti l’invito a metterti al loro fianco, perché loro quelle file le hanno fatte e non ci trovano nulla di male. Sei tu l’escluso, il reietto della modernità che avanza tra tecnologia e pubblicità. Magari hanno pure ragione, ma sono fatto così (e per fortuna non sono il solo), sono testardo e preferisco perdermi tra gli scaffali di una libreria e rimanere sempre fuori dalle file, a sognare le notti estive davanti a un mare che brilla, a respirare iodio e a guardare in alto, sorprendendomi di scoprire che lassù c’è ancora il cielo con il suo incantevole disordine.