“Contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Questa è la formula adottata dal governo di Matteo Renzi nella nuova legge sul lavoro (jobs act) per definire una nuova tipologia di contratto, il cui scopo è “agevolare le assunzioni” e quindi ridurre la disoccupazione. Tra le polemiche interne al Partito Democratico e le proteste dei sindacati, il jobs act ha ricevuto due giorni fa il via libera della commissione Lavoro del Senato, una delle tappe necessarie per l’approvazione della normativa. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sta premendo perché passi come legge delega già a fine ottobre, in modo da emanare una nuova normativa sulle discipline contrattuali entro sei mesi dalla sua entrata in vigore.

Ma come funziona questa tipologia di contratto? Il contratto a tutele crescenti non è altro che l’annullamento delle garanzie previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per un periodo pari ad almeno tre anni dal momento dell’assunzione. Passati i tre anni, questa disciplina contrattuale prevede che il lavoratore acquisisca progressivamente le tutele cui avrebbe diritto oggi nel caso di un’assunzione a tempo indeterminato. Il contratto a tutele crescenti andrebbe quindi a sostituirsi a quello a tempo indeterminato.

Nella stesura della legge il governo si è ispirato al modello tedesco, come ha spiegato lo stesso Renzi poche settimane fa alla stampa. L’idea è quella di promuovere la massima flessibilità, garantendo nel tempo l’applicazione delle garanzie previste per la tutela dei lavoratori. Il problema è che l’Italia non è la Germania e in ogni caso anche il tanto osannato modello tedesco non è privo di difetti. Il piano Hartz, un pacchetto di leggi entrate in vigore dal 2003 al 2005, prevede misure molto simili a quelle del jobs act italiano: un sussidio universale di disoccupazione, i sussidi sociali, il sostegno agli ultracinquantenni che perdono il lavoro e gli incentivi al lavoro autonomo.

Il sussidio di disoccupazione viene erogato a tutti coloro che perdono il posto per un periodo di almeno 10 mesi durante i quali il disoccupato è sollecitato con offerte di lavoro. Se rifiuta l’offerta, l’aiuto pubblico si riduce. Nel modello tedesco sono contemplati anche i “minijob”, una forma di impiego “precaria” che prevede un salario di 450 euro al mese per un massimo di 15 ore settimanali, senza tasse né contributi da parte del datore di lavoro. Ed è proprio questo il punto “critico” del sistema tedesco: i datori di lavoro che utilizzano i minijob non hanno alcun interesse a stabilizzare i precari, non essendo obbligati a versare i contributi. Il lavoratore che svolge il “minijob”, pertanto, è doppiamente penalizzato: da una parte riceve un salario “minimo”, dall’altra rischia di rimanere intrappolato in una forma contrattuale fortemente precaria.

Se quindi l’intenzione del governo italiano è seguire il modello tedesco, il rischio di una nuova “precarizzazione” del mercato del lavoro non è affatto da sottovalutare. In Italia, per altro, ci sono già 3 milioni di lavoratori precari che non trarrebbero alcun vantaggio dall’introduzione del “contratto a tutele crescenti”, in quanto nei primi tre anni di impiego potrebbero essere licenziati senza alcuna motivazione. Se poi consideriamo che il mercato del lavoro nel nostro paese è pressoché immobile, le persone licenziate rischierebbero di rimanere disoccupate per molto tempo e farebbero comunque fatica a trovare un impiego stabile. Insomma, ancora una volta sembra che la classe politica italiana non voglia affrontare i veri problemi del mercato del lavoro: ovvero l’immobilismo e l’assenza di un vero raccordo tra il mondo della formazione e quello del lavoro, oltre che la mancanza di un sistema di controlli efficienti.

Giorgia Lamaro -ilmegafono.org