Emergenza. Una parola abusata, consunta, grattata ogni giorno, per anni, fino a consumarsi, a perdere il suo reale significato, i suoi connotati più solidi. L’emergenza a Cassibile è una parola che fluttua, si sposta di bocca in bocca, passa tra poltrone, scranni, redazioni, tavole rotonde, manifestazioni. Una parola che riempie le pagine dei giornali, droga la narrazione di chiunque si approcci a questa vicenda. L’emergenza, a Cassibile, è un ossimoro, una beffa, una macchia. È la vecchia fotografia sbagliata, la sagoma sgradita di un dito che copre metà dello scatto e di cui ci si accorge solo quando si va a sviluppare il rullino. L’emergenza è la macchia che sporca in partenza ogni tentativo di soluzione e che diventa alibi per tutto quello che è il frutto di ritardi, disinteresse, incapacità, calcolo. A Cassibile sono circa venti anni (da 17 sicuramente, posso testimoniarlo direttamente) che i caporali e buona parte delle imprese gestiscono in maniera illecita l’intermediazione lavorativa, l’incontro tra domanda e offerta. Sono circa venti anni che accadono le stesse cose, le stesse ingiustizie.

Venti anni che le aziende scelgono il silenzio: quelle oneste si fanno i fatti loro, quelle disoneste negano e continuano a fare profitti utilizzando i caporali, intrecciando rapporti diretti e sempre più stretti con loro, sia quelli che vivono a Cassibile, sia quelli che si spostano al seguito dei lavoratori. Sono venti anni che la gente reagisce più o meno allo stesso modo, soprattutto lascia che siano sempre i soliti a parlare. Con poche lievi mutazioni, passando dal criminalizzare i braccianti e chiederne la cacciata da Cassibile, al chiedere che vengano accolti in modo dignitoso ma fuori dalla frazione, lontani dalla comunità. O a parlare di rischi per la sicurezza che non hanno alcun riscontro di fatti e dati. Venti anni di menzogne, di ghigni allargati a vuoto e affari che strisciano nell’ombra. Venti anni che la politica arriva in ritardo, senza soluzioni concrete e senza alcuna programmazione, senza un’idea, una linea chiara che costringa tutti gli attori ad assumersi pubblicamente le proprie responsabilità. Venti anni che arrivano proposte costantemente disattese, gettate in pasto a facce cupe e dure oppure ad altre pulite, per bene che esultano per palliativi insufficienti, con l’appoggio delle caste bianche, gruppi di amici di quelli buoni che fanno squadra sempre, allontanando qualsiasi approccio critico.

Venti anni di discussioni e inchieste e battaglie, per poi trovarci le solite soluzioni senza soluzione, annacquate nel coro dei “non dipende da me”, “non possiamo fare tutto noi”, “la prefettura…”, “abbiamo fatto il possibile”, e così via. Venti anni che i braccianti stranieri puntualmente si presentano a Cassibile per lavorare, schiacciati dal bisogno e dalla impossibilità di fermarsi, dalle difficoltà di scioperare o protestare, travolti da una solitudine di diritti che qualcuno cerca di colmare vanamente con la carità. Venti anni di compitino svolto al minimo, con la pretesa di applausi, con la pretesa di vedersi riconosciuti i meriti davanti al fango e agli alberi, alle baracche e ai diritti negati. Venti anni di nulla, con qualche piccolo avanzo donato ai braccianti: in passato una tendopoli insufficiente, qualche bagno chimico, un filo elettrico, qualche rubinetto d’acqua che tenesse lontani i lavoratori dalla città, così da non “disturbare” gli elettori cassibilesi; oggi un campo per un numero esiguo di lavoratori (circa il 15% del totale).

Venti anni di diritti calpestati in santa pace, senza mai sentire la voce grossa di un sindacato, senza un picchetto davanti a un’azienda, senza una denuncia con nomi e cognomi delle imprese che truffano e sfruttano i braccianti, senza uno sciopero o una manifestazione al mattino davanti ai caporali che caricano i lavoratori sui loro mezzi, costretti a pagare per il trasporto nei campi. Venti anni di negazionismo o di silenzio, di indifferenza e di inerzia da parte delle principali organizzazioni datoriali. Venti anni di tavoli su tavoli e paroloni gonfi di aria. Prese in giro, farcite con progetti sempre rinviati in avanti nel tempo, in modo da non essere mai realmente efficaci. Prese in giro rispetto alle quali in tanti tacciono, anche coloro che hanno penne e pc in mano, tacciono per non violare la suscettibilità dei nostri eroi, per non rovinare rapporti personali, amicizie d’infanzia o semplicemente perché non gliene frega nulla di esseri umani incatenati all’indifferenza di una città molle. Una città incapace da decenni, o forse da sempre, di cambiare davvero.

Siracusa è una città che dentro il riflesso azzurro della sua impareggiabile bellezza affoga la sua ignavia, le meschinità, i rapporti inossidabili che travalicano appartenenze partitiche, differenze valoriali. C’è un punto oltre il quale, a Siracusa, la verità si affanna, sfiancata dalla muddura delle convenienze, del quieto vivere, dell’essere parte di una comunità di pari. Un punto spaventoso oltre il quale la verità disturba, diventa fastidio, parola sacrilega, blasfemia, isolamento. Siracusa è meraviglia e infamia, un miscuglio che affascina e sfianca, seduce e allontana. Siracusa è la città nella quale i drammi atavici vengono definiti emergenze, per fare in modo di rattoppare alla buona le strade del quotidiano, senza curarsi delle voragini che le costelleranno al primo scroscio di pioggia. Siracusa è un lamento immobile, è la città della muddura, ossia quella umidità appiccicosa, figlia dello scirocco che qui si raccoglie in certe giornate e serate. Uno scirocco che Pippo Fava definiva “profondo, umido, c’erano dentro gli umori degli scogli, la putrefazione dell’erba marina, il profumo dei muschi. In realtà, proprio per lo scirocco, non c’era una città nel Mediterraneo che odorasse sempre e così profondamente di mare come Siracusa” (da ‘Un incubo ogni giorno’, ne “I Siciliani”).

Questo scirocco, che dalla piana della provincia scende fino a Ortigia attraversando la città, estenuava ed estenua i siracusani, li rendeva e li rende stanchi, abulici. Tutto diventa lento, soffocante, immutabile nei giorni e nelle sere di scirocco. E ciò si riversa nella vita. Non è gattopardismo, è molto di più. C’è la fierezza gratuita di sentirsi ancora parte di una storia gloriosa che non esiste più, una storia nella quale la genialità di Archimede è stata sostituita dalla furbizia meschina, dall’invidia e dall’abulica accettazione dello status quo. Ogni tanto c’è qualche fiammata isolata, ma si spegne in fretta davanti ai calcoli, alle ambizioni personali, al bisogno di quiete delle caste bianche. Siracusa è la città della muddura, quella che, per un tozzo di pane raffermo e qualche anno di benessere, si è lasciata devastare e fottere dallo sviluppo industriale che le ha strappato le vesti e la carne, lasciandole i graffi e la bava delle più squallide perversioni. Siracusa ha buttato via il suo futuro e sa che difficilmente potrà rimediare.

Pippo Fava, ancora lui, descrisse bene, quarant’anni fa, cosa era accaduto a Siracusa, città nella quale aveva trascorso tre anni: “Siracusa era una delle città più gentili e affascinanti d’Europa, aveva la malinconia di Venezia ma una luce più bianca, più alta: aveva il fascino delle città marine dell’Africa, ma era più candida e serena; aveva i resti mirabili del tempo greco, cioè l’investitura di una delle più grandi civiltà umane ed insieme però anche la grazia, le misteriose bellezze del Seicento. È senza dubbio la città italiana che ha perduto la più grande occasione civile che, nella vita di una città, passa una volta ogni duecento o trecento anni”. (Da ‘Devastazione’, ne “I Siciliani”). Siracusa di occasioni continua a perderne ancora, ogni giorno. Perde l’occasione di riscattarsi, di trasformare una situazione drammatica che si trascina da anni in una opportunità culturale, sociale, in esempio virtuoso che porterebbe vantaggi per tutti, per gli sfruttati e per gli onesti, per i timorosi e per gli ignoranti, per chi pretende diritti e chi sciorina doveri.

Un’occasione che alcuni incastrano nelle parole senza mai accompagnarle ai fatti, perché c’è sempre uno sforzo in più che non si ha la voglia o il coraggio di fare, così ci si accontenta delle mezze soluzioni, del compitino per farsi dire bravo o brava e lasciarsi coccolare dalle proprie comunità di amici, dai propri circoli che diventano caste imbiancate, guardando al contempo con occhio pietoso, irritato o derisorio chi continua a pretendere pieni diritti e soluzioni reali. Succede da decenni a Siracusa. Successe anche quando la città venne trascinata nell’imbuto della sua futura malattia. Non vi furono voci opposte, e se vi furono rimasero inascoltate, derise, isolate. La città della muddura era compatta come l’aria riempita dallo scirocco, che poi a sua volta si riempirà di miasmi, diossina, benzene, anidride solforosa, donando alle generazioni di oggi e a quelle di domani il puzzo ammorbante della propria miseria civile. Di quell’accettazione che disprezza chiunque provi a indicare che i sovrani e le sovrane che si accapigliano o che si pavoneggiano per le loro vesti (di capo o di combattente, di stacanovista o di anima bella) in realtà sono nudi. Imperfetti e ipocriti oppure incapaci e codardi.

Questa è la città della muddura, che sempre Pippo Fava definì così: “Perdonate la similitudine che non è oscena ma soltanto dolorosa: Siracusa è una vecchia puttana sulla quale migliaia si sono accaniti con tutti i loro desideri più turpi, e le hanno contagiato tutti i loro orribili malanni, tutti i veleni. È malata per sempre. Il benessere l’ha fatta prostituire, gli ha dato la sensazione di avere improvvisamente una ricchezza che non aveva mai conosciuto, e quindi l’ansia, una specie di pazzia di godere di questa ricchezza prima che essa si palesasse un inganno. In realtà Siracusa era stata sempre povera. Mirabile e povera”. Di questa città, meravigliosa e infetta, superba e misera, luminosa e incompiuta, Cassibile è uno dei tanti volti malinconici. Degli ultimi tre anni di questa città, segnata dalla muddura e dal vento di scirocco, e di questa emergenza che non è emergenza, si occuperanno le prossime pagine. Quelle più dolorose, più dure, perché segnate da una speranza che si affievolisce sempre di più dinnanzi al vuoto che circonda la vita e il dolore quotidiano degli sfruttati di Cassibile.

Ci vediamo giovedì 18 febbraio alle ore 20 con il sesto capitolo. A presto.

MP