La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta la melodia senza parole, e non si ferma mai”. (Emily Dickinson).

Ani Guibahi Laurent Barthélémy aveva quattordici anni, e la melodia che dimorava nella sua anima non aveva le ali ma voleva volare comunque e trovare le parole mancanti. Abidjan è la città più popolosa della Costa d’Avorio, un tempo era la capitale di quella colonia francese nell’Africa occidentale. L’aeroporto Port Bouet è a una manciata di chilometri e sulla pista c’è un aeroplano che sta per spiccare il volo, destinazione Parigi. Forse la speranza di Ani Guibahi Laurent aveva il volto della Torre Eiffel o i colori del Paris Saint-Germain e dei suoi tanti campioni. Ani Guibahi Laurent ha quattordici anni e a quell’età la speranza ha mille colori e deve volare. Allora lui afferra per la coda quel grande aquilone di metallo con un milione di cavalli, e si nasconde dentro le sue zampe che si chiudono a riccio dopo aver spiccato il volo.

E vola in alto, così in alto che più non si può. Qualche ora soltanto, da Abidjan a Parigi, poi le zampe del grande aquilone di metallo si sono riaperte e lui era li, rannicchiato nel suo sogno ad ascoltare le parole di quella melodia che si chiama speranza. Per qualcuno era solo un piccolo clandestino ma insieme con lui è morta anche quella melodia che canta senza parole, perché non sa più dove cercarle.

È sempre difficile trovare le parole per cantare la speranza, perché la speranza inganna sempre gli uomini. “Si parla della guerra: la facciamo, non la facciamo, con chi stiamo, che posizione prendiamo, come la combattiamo. Parlare, discutere, litigare sulla guerra. E viverla? Come si sta a viverla? Che cosa si pensa, quando la si vive? Che cosa si prova, dentro la guerra? Quali miserie, quali angosce, come si trema durante la guerra? Proviamo a guardare la realtà di chi ne viene coinvolto, proviamo a passare questo confine. Cominciamo ad ascoltarne le storie, che sono storie di uomini. Credo che conoscerle sarebbe sufficiente, a quasi tutti noi, per cambiare idea sulla guerra. Storie vere, non manipolate. Proviamoci. Dopo, forse, potremo parlare della guerra a buon diritto e, quasi certamente, in modo diverso. “ (Gino Strada, dal libro “Buskashì”).

Venerdì 10 gennaio Gino Strada era ospite di Diego Bianchi, a “Propaganda Live”. Il volto scavato, stanco e provato, passato attraverso mille fatiche e mille battaglie dove l’Uomo non è mai stato sconfitto. Perché quando un Uomo non china la testa non sarà mai un vinto. Credo che questo Paese non sia ancora pronto per capire una tale lezione di umanità, e chissà quando verrà quel momento.

La scelta della violenza, in tutte le sue declinazioni, come racconta Gino Strada, è la scelta che cancella le parole della melodia che dimora nell’anima e di cui parla Emily Dickinson. E quella scelta trova mille strade su cui correre: dagli equilibri del potere economico e di mercato alle guerre di religione o sedicenti tali. C’è sempre l’ombra del potere dietro ad ogni guerra e quell’ombra si muove su ogni pezzo di territorio che significa egemonia, controllo del territorio e potere. Le persone come Gino Strada sono un ostacolo a tutto questo e l’amarezza nel suo sguardo spiega il senso di tutto questo meglio di mille parole. Spiega il senso di ogni guerra, locale e non, che infiamma il mondo. Spiega perché nel Mediterraneo si continua a morire e spiega la scacchiera che si sta disegnando in ogni angolo della Terra: in quella scacchiera la polvere nasconde l’essenza di ogni conflitto, e allora anche Baghdad diventa il terreno di scontro fra superpotenze e lì, su un territorio terzo che un giorno alla volta prova a tornare alla vita dopo anni di violenze, si combatte la guerra fra USA e Iran.

Ma Baghdad è solo un pedone di quella scacchiera che muove i suoi alfieri e le sue torri, e su ogni torre si gioca il destino degli ultimi. Il destino degli ultimi qualche volta si gioca in terra e qualche volta in cielo, e allora capita che i grandi aquiloni di metallo incontrino un missile che chiude quelle ali. È successo pochi giorni fa, sul cielo di Shehad Sahar, quartiere della capitale iraniana, subito dopo il decollo dall’aeroporto “Imam Khomeini”. L’aquilone dell’Ukraine International Airlines è precipitato, sfiorando le case. Non è la prima volta che un missile va a caccia di aquiloni, era già successo in passato sul cielo di Ustica, e quando succede si parla di fatalità e di “tragico errore” oppure non se ne parla proprio e si nasconde tutto.

Sono tante le cose di cui non si parla e che si nascondono sotto il tappeto, come si fa con la polvere. È un tappeto grande, accogliente, c’è posto per tutti e per tutto. Sotto quel tappeto finiscono di volta in volta la Palestina e il dramma di un popolo senza terra, condannato a scommettere sulla propria vita ogni mattina. E poi il popolo curdo… chi si ricorda ancora delle donne di Kobane alzi la mano. L’Afghanistan e Kabul, il lavoro umano e gentile di Gino Strada e poi il Cile, dove i giorni del Condor cercano di riprendersi il passato e il futuro. Sulle piazze di Santiago, e della repressione violenta di quelle piazze, è calato il silenzio. Il silenzio, per ricordare a tutti che è inutile alzare la voce. Ma è davvero così ? No, non è così. Rivedo una volta di più tutta l’intervista a Gino Strada e mi accorgo che c’è un modo per alzare la voce senza gridare: è rimanere coerenti con le proprie idee e la propria umanità, continuare a fare le cose in cui si crede, andare avanti anche a costo di restare sempre più soli, più isolati. Perché questo è il prezzo che dobbiamo essere disposti a pagare, che bisogna mettere in conto.

Fabrizio de André diceva che “…La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà…”. Se questo è il conto da pagare per restare umani sono disposto a pagarlo, perché poi, in fondo, non si è mai davvero soli. Basta uno sguardo, una carezza gentile, un sorriso amico e la solitudine vola via sull’ennesimo aquilone che ognuno di noi cerca di afferrare. In fondo all’anima c’è sempre quella melodia che canta senza parole e non si ferma mai, e ognuno di noi cerca quelle parole. Qualche volta pensiamo di averle trovate su una strada che vogliamo camminare, tante volte ci accorgiamo che forse quella strada non è la nostra o non lo è più. Allora si alza la testa e si guarda in alto, le mani nelle tasche stringono qualcosa che non riusciamo ad afferrare, ma intanto la strada continua e ci sarà sempre un aquilone che ci farà tornare la voglia di volare.

“ … In Afghanistan esistono tanti bambini, ma non esiste più l’infanzia. Spero che un giorno nel nostro paese torni la pace e si possa tornare a sentire nelle strade il profumo del thé”. (da “Il cacciatore di aquiloni”, di Khaled Hosseini)

Maurizio Anelli (Sonda.life) – ilmegafono.org