Se il mondo girasse al contrario potremmo sostenere le tesi più assurde. Se fosse consentito attribuire credibilità a qualsiasi punto di vista opposto alla narrazione reale, scientifica di un fatto, allora non esisterebbe più alcuna verità. Sarebbe il caos. La nostra vita vissuta sarebbe identica a quella virtuale: non potremmo sostenere alcun esempio educativo, alcun valore o principio di umanità, perché chiunque potrebbe intervenire sostenendo un pensiero contrario, urlando qualche slogan senza preoccuparsi di dimostrare il possesso di conoscenze e competenze su uno specifico tema e le relative basi logiche e storiche.

Vivremmo insomma dentro un clima di incessante contestazione, di esasperato complottismo, dove dominerebbero l’assoluta sfiducia nell’altro e il sospetto, e dove nulla sarebbe credibile. A parte l’incredibile, naturalmente. Oggi questo tipo di pensiero, purtroppo già predominante sul web e in particolare sui social, ha rotto gli argini ed è tracimato arrivando nel mondo reale e traducendosi in proposte di legge e azione di governo, in credenze che si radicano, nonostante siano palesemente false, in una allergia generale al pensiero critico, allo studio, all’approfondimento. Gli slogan e le sigle guidano il linguaggio quotidiano, la verità è divenuta una nemica da mettere in costante discussione fino al non senso, oltre i limiti della decenza.

Così accade che chi fa informazione debba rispondere dettagliatamente ai complottisti acefali che sostengono, con teorie da circo, che le foto di alcuni dei tanti bambini morti nel Mediterraneo, a causa della politica razzista e spietata del governo italiano, siano finte, una messinscena orchestrata dalle Ong e dal loro presunto burattinaio Soros. Una assurdità, uno sproloquio insensato di un nugolo sempre più ampio di ignoranti o di persone in malafede costringe i giornalisti (ovviamente accusati di essere servi di questo o di quello a seconda dei temi affrontati) a rispondere, a spiegare, a smentire le insinuazioni folli di queste masse di replicanti da tastiera.

Davvero siamo arrivati al punto che anche chi svolge correttamente il proprio compito di informare debba sprecare spazio e tempo, non per ulteriori approfondimenti, ma per difendersi da accuse lanciate da una turba di squilibrati che credono alle scie chimiche e al complotto mondiale delle farmaceutiche per far ammalare i nostri bambini? Purtroppo la risposta è affermativa. E purtroppo serve farlo, poiché lo spazio conquistato da queste masse di disinformatori disinformati è diventato troppo ampio e travalica i confini chiusi del popolo dei social, invadendo la società e inquinando il dibattito. Tutto ha uno scopo, ossia quello di costruire nemici e delegittimare chi fa il proprio dovere, chi informa, chi tiene dritta la barra della democrazia.

Siamo arrivati a un punto di rottura tremendo, una spaccatura profonda, una crepa dentro il quale ribolle odio velenoso e cuoce una acida avversione a tutto ciò che è ragionamento, valore umano, storia, sapere. Gli intellettuali sono relegati ai margini, osteggiati, raggruppati in etichette generalizzanti e false ma utili a identificare un nemico che, nell’immaginario limitato delle masse, non ha differenze. Così chiunque si opponga alla deriva autoritaria e razzista dell’Italia è bollato come comunista o radical chic da gente che non ha nemmeno idea di cosa significhino entrambi i termini, quali siano le loro radici storiche e semantiche e le loro proiezioni concettuali.

Nulla di nuovo, per carità, è uno schema che va avanti da tempo, ma la novità è rappresentata da una aggiunta, da una nuova abitudine che sta permeando il tessuto connettivo della nostra società, anche pezzi di quella parte che non condivide la linea razzista dell’esecutivo attuale: potremmo definirla come il rovesciamento prospettico dell’odio. In poche parole, chi si oppone alle nefandezze di Salvini, Toninelli e Di Maio, o agli abusi commessi da rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali o delle forze dell’ordine raccontati sui media, viene tacciato di essere un “sobillatore”, di “pompare odio” nei confronti del governo e dei suoi esponenti o in generale di chi l’odio lo materializza costantemente in azioni concrete e contrarie alla nostra Costituzione e al nostro impianto democratico.

I carnefici, dunque, vengono trasformati in vittime, con una sorta di ribaltamento di prospettiva che lascia di stucco. Così, ad esempio, Salvini viene fatto passare per un bersaglio e poco importa che sia stato lui stesso a sdoganare l’odio, elevandolo a linguaggio, diffondendolo con post e tweet volgari, proiettandolo in abusi, eccessi, violazioni dei diritti umani compiute quotidianamente. Un odio che invece non appartiene a chi, legittimamente, nelle forme concesse dalla democrazia, sta contestando questo governo della paura e i fatti che ne sono conseguenza e che spingono, ad esempio, alcuni cittadini, compresi alcuni amministratori locali o componenti delle forze dell’ordine, a sentirsi legittimati a usare violenza o linguaggi discriminatori nei confronti di cittadini stranieri.

Eppure, questo odio, nella visione rovesciata del mondo, diventa oggi surreale terreno di accusa per chi semplicemente si oppone, civilmente, all’orrore. Come risposta a tutto ciò, ultimamente, dal fronte di chi contesta il razzismo gialloverde, sono arrivati molti bellissimi richiami alla gentilezza, alla necessità di non cadere nel tranello dell’odio che è esattamente la palude ideale nella quale sguazzano Salvini e la sua cricca di sostenitori. C’è chi suggerisce di rispondere informando, ribattendo punto per punto, con pazienza ed educazione, a chi insulta o veicola falsità. C’è chi sostiene che la gentilezza sia l’arma per annichilire l’odio. Un messaggio bellissimo, un’utopia incantevole, anche un esperimento possibile magari, ma facciamo attenzione. Molta attenzione.

La gentilezza può essere un primo approccio, ma non un vessillo da difendere fino alla fine per sentirsi migliori degli altri e non affondare nel loro letamaio ideologico. Ci deve essere un limite. Perché la storia ci ha insegnato, con le sue lezioni più orribili, che per difendere l’umanità dal buio non ci si può affidare alle carezze. E anche questa necessità di rispondere al ribaltamento prospettico dell’odio appare più come una forma di pensiero intellettuale e filantropico, affascinante e sacrosanto, ma poco utile. Perché gli altri corrono, affermano di non avere opposizione, distruggono e riportano indietro le lancette della storia, insensibili alle carezze ed eccitati dal ghigno feroce della loro violenza.

La democrazia è uno spazio aperto, ma non si può lasciare che qualcuno ce la sfili con tale facilità, non possiamo appellarci esclusivamente al nostro sentirci diversi, più umani, pieni di parole e pensieri. Perché conta poco se poi, davanti al male, ci scopriamo profondamente e angosciosamente disarmati.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org